Recovery fund, la vera urgenza è snellire le procedure. Unica strada per non perdere il treno
Il tema è come evitare da un lato un'eccessiva centralizzazione delle competenze in materia di progetti da rendere “cantierabili” in capo a Palazzo Chigi (occorre certo il pieno coinvolgimento del Parlamento), dall'altro individuare il più idoneo strumento di collegamento con le istanze provenienti dai vari dicasteri e dalle autonomie locali
di Dino Pesole
4' di lettura
A dispetto degli innumerevoli “decreti semplificazione” che sono stati varati negli ultimi quarant'anni, il nodo – pur con alcune eccezioni (come la dichiarazione dei redditi precompilata) - resta sostanzialmente irrisolto. La vera sfida è snellire le procedure, rompere il muro della burocrazia e delle rendite di posizione, accelerare i procedimenti amministrativi. Ben al di là delle polemiche e delle fibrillazioni politiche che stanno caratterizzando questo scorcio di fine anno sulla “Cabina di regia” cui dovrebbe essere affidato il compito di gestire la partita dei 209 miliardi del Recovery Fund attribuiti al nostro Paese, è questo il vero tema.
Occorre snellire e semplificare sul serio
“Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata” tanto per citare un classico della letteratura latina come Tito Livio. Si ha l'impressione che il tema della “verifica di Natale”, con annesso il tema (non proprio in cima alle preoccupazioni degli italiani) del “rimpasto”, non colga affatto il fulcro della questione, che poi si riassume in questo interrogativo: saremo oppure no in grado di garantire che la notevole mole di progetti da realizzare da qui ai prossimi anni (sul fronte delle riforme come su quello degli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali) non si incagli nel fitto coacervo di intoppi burocratici e amministrativi, in inutili duplicazioni di funzioni e competenze? Saremo oppure no in grado di mettere in campo una vera “capacità e responsabilità di spesa”?
Più volte viene citato in questi giorni il dato relativo ai fondi strutturali: su 40 miliardi assegnati da Bruxelles negli ultimi sette anni ne sono stati utilizzati solo 16. Non sappiamo come evolverà la “quasi crisi” che la formazione guidata da Matteo Renzi sta brandendo in queste ore come arma per indurre il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte a una radicale retromarcia sulla governance del Recovery Plan. Di certo, questo è un problema che riguarda e riguarderà l'attuale Governo e quelli che seguiranno, al pari del Parlamento e dell'intera classe dirigente del Paese. Ed una sfida che dovrebbe essere parte integrante di quel complessivo “slancio costituente” necessario per affrontare in modo condiviso la fase della “ricostruzione” del dopo pandemia. In altri paesi a noi vicini, questa coesione sul disegno complessivo non sembra mancare. Da noi al contrario si preferisce discutere di rimpasti o verifiche di governo.
Il tema della governance
Il tema di come strutturare le “cabina di regia” per il Recovery Plan non è affatto irrilevante. Come ha osservato da ultimo il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli una sorta di cabina di regia è prevista in gran parte dei paesi europei. I progetti saranno 60 - ha aggiunto il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri - e dunque la cabina di regia è necessaria. Il vero tema è come evitare da un lato un'eccessiva centralizzazione delle competenze in materia di progetti da rendere “cantierabili” in capo a Palazzo Chigi (occorre certo il pieno coinvolgimento del Parlamento), dall'altro individuare il più idoneo strumento di collegamento con le istanze provenienti dai vari dicasteri e dalle autonomie locali. Non si può immaginare di gestire una partita di tale portata con le vecchie logiche. In parte si potrebbe prendere esempio dal cosiddetto “modello Genova”, che ha consentito di costruire il nuovo ponte in tempi tutto sommato record per il nostro paese. Non si tratta di un optional, quanto di una necessità assoluta, poiché i fondi verranno erogati in tranche semestrali, a fronte dell'effettivo stato di avanzamento dei vari progetti sottoposti al vaglio della Commissione europea. Quindi il fattore tempo giocherà un ruolo decisivo. In caso contrario, si potrà anche arrivare a sospendere i fondi per il paese che risulti inadempiente. Si tratta di condizionalità da tener ben presenti.
Perché finora le semplificazioni non hanno prodotto l'effetto sperato?
Abbondano nel nostro ordinamento provvedimenti ad hoc, norme di attuazione, regolamenti e circolari prodotte negli ultimi decenni. Spesso se ne è persa la traccia, perché in diversi casi ci si è affidati alla mole dei provvedimenti e delle circolari attuative, di stretta competenza delle burocrazie ministeriali. L'intreccio perverso di competenze tra Stato centrale e Regioni, frutto di una pasticciata e incompleta modifica del Titolo V della Costituzione, ha reso ancor più fitto il reticolo di norme e regolamenti, con frequenti contenziosi di cui è stata investita la Corte Costituzionale. Si parte addirittura dagli anni Sessanta del secolo scorso (con la legge n.15 del 4 gennaio 1968 varata dal terzo governo Moro) per poi approdare alla prima, vera riforma della pubblica amministrazione varata nel 1990. Ci si chiede perché mai principi sacrosanti, come quello che prevede che i procedimenti amministrativi debbano avere “un inizio e una fine”, entro tempi certi da verificare con un “responsabile” siano stati regolarmente disattesi. Anche l'“autocertificazione” ha faticato non poco ad affermarsi. Le leggi Bassanini del 1997 ne hanno ribadito i principi portanti. Tra questi era (e sarebbe) previsto già dal 1990 che qualora “l'interessato dichiari che fatti, stati e qualità” siano attestati in documenti già in possesso “della stessa amministrazione procedente o di altra pubblica amministrazione”, il responsabile del procedimento debba procedere d'ufficio all'acquisizione “dei documenti stessi o di copia di essi”.
Le varie norme adottate
Nel maggio del 2008, è la volta del “piano industriale” del ministro per la Pubblica amministrazione del quarto governo Berlusconi, Renato Brunetta. Poi arriva la crisi del 2008-2009 e nel 2012 vede la luce il “decreto Semplifica-Italia” del governo Monti, che fa seguito al ”Salva-Italia” e al “Cresci-Italia”. Non è da meno il governo Letta che nel giugno 2013 vara il “decreto Fare” con più di 80 interventi di semplificazione e di stimolo all'economia. Ci riprova il governo Renzi, che introduce nel novembre 2014 una serie di semplificazioni, la più rilevante delle quali è l'avvio della dichiarazione dei redditi precompilata (un indubbio passo in avanti). La più complessiva riforma dell'amministrazione pubblica, affidata alla “legge Madia” approvata nell'agosto del 2016 (governo Gentiloni) anch'essa all'insegna della semplificazione e della lotta alla burocrazia, segna invece il passo. Semplificazioni fiscali che compaiono anche nell'apposito decreto approvato nel maggio 2019 ad opera del governo Conte1 nonché nel provvedimento varato dal governo Conte2 nel luglio del 202 che interviene in materia di contratti pubblici, edilizia, procedimenti amministrativi e responsabilità dei funzionari pubblici, amministrazione digitale, attività d'impresa, ambiente e green economy. Sarà la volta buona?
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