Renzo Piano festeggia gli 80 anni in «bottega»
di Fulvio Irace
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Rue des Archives, a Parigi, taglia il cuore del Marais da rue de Rivoli a rue de Bretagne . Al numero 34, in un vecchio palazzo ristrutturato, ha sede lo studio francese di Renzo Piano che il 14 settembre vi festeggerà il suo 80mo compleanno. Se è vero che l'atelier di un artista ne riflette la personalità, lo studio di Piano non fa eccezione. Visto dalla strada sembra a proprio agio tra i tavoli all'aperto del sole di settembre, piccoli ristoranti, vinerie e botteghe di articoli per la casa. Il piano terra però è trasparente come una vetrina e sbirciandoci dentro dà l'impressione di una falegnameria. I soci della prima ora ricordano ancora quando, appena aperto, vi si intrufolò una vecchietta con una sedia ,chiedendo se potevano incollarle la gamba che si era rotta.
L'ingresso dello studio corrisponde insomma a quella che di solito è la stanza sul retro, il laboratorio per i modelli, il camerino di prova dove i progetti si tagliano e si misurano con le mani. Entrando, l'odore di legno, la polvere di segatura e lo sfrigolio delle tagliatrici sui sottili fogli di compensato, lanciano subito il primo messaggio: qui le mani non servono solo per cliccare sul mouse del computer. Piano la chiama "bottega", come se si trovasse ancora nella Genova dell'infanzia e della prima giovinezza: dopo la guerra, quando seguiva sui cantieri il padre ( «più di un capomastro» precisa «e meno dell'imprenditore , ma sempre in giacca e col cappello in testa») che gli ha trasmesso la dignità del mestiere e la certezza che bisogna sporcarsi le mani toccando le cose .
«L'unica maniera - dice - per conoscere realmente come nasce un edificio, come si costruisce una nave, come si fabbrica un tavolo o una sedia». Di quei lunghi pomeriggi gli è rimasto dentro la vita del cantiere, le gite in porto («perché al mare si andava solo a fare i castelli di sabbia»), la meraviglia e l'incanto delle gru che libero slegato dalla gravità. «Per me il porto era il mare operoso, l'andirivieni di navi descritto da Maurizio Maggiani in La regina disadorna: un mondo favoloso dove si potevano persino vedere elefanti volare. Un andirivieni di navi, di bastimenti: e bâtiment, in francese, è l'edificio, la costruzione».Ma, con una carta di progetti in corso che copre l'intero planetario - da Mosca a Taiwan, a Beirut, Des Moines, Istanbul, Londra, San Francisco, Bologna, eccetera - per Piano non è certo tempo di nostalgia e i ricordi di formazione sono solo il punto di partenza di un racconto che parte da lontano .
«Qui, a Parigi - dice - si chiamerebbe un fil rouge, una metafora che indica la coerenza di una vita, la forza di quei pochi principi fondamentali che in fondo guidano qualsiasi mestiere, quando cerchi di farlo bene. Chiunque si interroghi sul giusto aspetto della propria esistenza, può verificarne la coerenza a quella bussola interna che i marinai chiamano bussola cieca: quella che dovunque ti giri ti indica il Nord, impedendoti di cambiare rotta. Dipende da come sei stato educato e come sei vissuto: quando ne sei consapevole, ti fa andare sempre nella giusta direzione».Così, dopo l'adolescenza in provincia, la fuga verso la grande città. Milano, gli studi al Politecnico, l'ansia del sociale, la contestazione, l'incontro con l'industria, infine la laurea, e brevi, intensi anni di lavoro con Albini e con Zanuso: una specie di agnizione! I castelli di sabbia diventano esperimenti di strutture leggere e flessibili: la preistoria dell'infanzia diventa l'avvio della storia del giovane Piano che, alla fine degli anni '60, carica tutto quello che ha su una vecchia 1100 e parte per Londra, la mecca delle avanguardie dove la tecnica non era una "bestemmia", ma una scommessa sul futuro.
«Con Richard Rogers - racconta - facevamo piccoli lavori dove la tecnica era un attrezzo indispensabile per realizzare pezzi di un mondo nuovo. Come il Beaubourg, nel 1971, che in fin dei conti è la prima summa di tutte le cose che dicevo prima, una grande nave nel posto sbagliato, il vecchio Marais dove ora ho lo studio». Il filo rosso si aggroviglia in un andirivieni da "bussola cieca": Parigi, dunque, la seconda patria, ma anche l'America, sempre in quei favolosi anni a cavallo tra i 60 e i 70. «A Filadelfia, alla Penn University, per un breve tempo ho fatto l'assistente di Robert Le Ricolais (un autentico personaggio, come gli amati Wachsmann e Fuller) che, attraverso la matematica, la fisica e l'ingegneria, ci aiutava a scoprire la natura delle cose, avvicinandomi al mondo delle tensostrutture. Lì conobbi Kahn con cui ogni tanto si prendeva il tè delle cinque e a cui lui mi presentò quando il maestro stava disegnando lo stabilimento Olivetti ad Harrisburg, in Pennsylvania. Gli serviva un aiuto per disegnare i lucernai dello stabilimento fatto a moduli ottagonali e io feci delle piramidi in fiberglass che furono montate con l'aiuto di elicotteri».Fu il primo incontro con gli States: ma dieci anni dopo, il filo rosso si riannoda e a partire dal 1985 quando Dominique de Menil gli commissiona la sua Fondazione a Houston, gli Stati Uniti diventano la nazione dove si concentra la maggior parte di suoi progetti («dei venti che ho adesso sulla scrivania, otto sono lì, tra New York, Los Angeles, San Francisco, tutti con una valenza pubblica tecnico scientifica»).
Nel 1998 Bill Clinton gli apre le porte della Casa Bianca, consegnandogli il Premio Pritker; nel 2006 è il primo italiano inserito dal «Time» tra le dieci personalità più influenti del mondo: Renzo il genovese riconquista l'America alla cultura europea. Un solitario che non può fare a meno di lavorare in gruppo: non è l'unico paradosso di questo navigatore che ha sempre seguito la sua corrente. A una fama planetaria corrisponde in Italia la maledizione del nemo propheta in patria. Solo nel 2013, la nomina a senatore a vita - l'equivalente del titolo di "lord" che in Inghilterra si assegna agli architetti benemeriti - segna una svolta nella sua recezione come personaggio pubblico. «Approdare in Senato - ammette - è un altro pezzo di questo filo rosso. Con il mio stipendio ho messo in piedi il team del G124, dal nome della mia stanza a palazzo Giustiniani, che è diventata un'altra parte dello studio, concentrata sul tema delle periferie. Insieme alla Fondazione Piano a Punta Nave, è la mia maniera di rispondere al dovere di rimettere in circolo tutto ciò che la mia vita ha rappresentato; di restituire ai giovani parte di quello che si è avuto».
E i giovani mostrano di comprendere e apprezzare: nel 2007 (in occasione dei suoi 70 anni) la Triennale gli dedicò una mostra memorabile che fece saltare ogni record di visitatori. La maggior parte giovani, da ogni parte d'Italia, che scrivevano commenti e ringraziamenti in quattro grandi album alla fine della mostra. Snobbato dall'Accademia universitaria, Piano era riconosciuto dagli studenti come maestro naturale. Fu il segnale di un'inversione di tendenza. Dopo decenni di oblio, di diffidenza, di maldicenza, Piano diventava il padre nobile dell'architettura italiana. Con ironia confessa: «Indro Montanelli diceva che a una certa età ti mettono su un piedistallo, s'inginocchiano e poi però ritornano a fare sempre le stesse cose». Ma la parte del "grande vecchio" non fa per lui e il pendolo degli anniversari gli sembra poco più di un rituale scaramantico: «Sto leggendo il libro di Rovelli sul tempo perché il tempo per me rimane un mistero. Dopo tanti anni mi sembra ancora di essere all'inizio. D'altra parte sono talmente attorniato dai giovani, dalla vita d'ufficio (150 persone) che non c'è nemmeno tempo di pensare al trascorrere del tempo o di annoiarsi. Anche le pause dei silenzi sono piene di riflessioni sulle cose da fare, sulla rotta di navigazione di tutto l'ufficio». Ancora una volta c'è da dar ragione a Picasso, quando, infastidito da tante domande sulla sua età, rispose: «ci vogliono molti anni per diventare giovani».
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