Resi, il peso ambientale: troppe spedizioni e prodotti che finiscono in discarica
I prodotti che costano poco non vengono rimessi in vendita dalle aziende perché a loro non conviene. Finiscono così direttamente in discarica. La normativa Ue (non ancora approvata) dovrebbe frenare il fenomeno
di Marta Casadei
2' di lettura
Ktamanto, Accra, Ghana: è il più grande mercato di abiti usati al mondo, uno dei luoghi simbolo dell’impatto ambientale della sovraproduzione, dove le aziende scaricano anche parte dell’invenduto e degli acquisti eccessivi di moda, specialmente a basso costo. Qui (e altrove) finiscono, oltre ad abiti usati, anche prodotti mai indossati e rispediti al mittente. Che a sua volta, in una quota non trascurabile di casi, non li rimette sul mercato ma li butta via.
Il costo dei resi, dunque, non è solo economico ma anche ambientale. E non dipende solo dai prodotti nuovi che vengono smaltiti dopo essere stati restituiti, ma anche ai prodotti che affrontano tutto l’iter per essere rivenduti su un sito o in negozio, magari a prezzo ridotto. Nel conto, infatti, rientrano l’impatto ambientale del trasporto, del packaging - quello con cui viene spedito il prodotto e con cui viene rimandato al mittente, che spesso non coincide con l’originale -, a cui si sommano le procedure di lavaggio e sanificazione, stiratura ed eventuale riparazione prima della rivendita.
In Uk il 3% dei resi viene buttato via o incenerito
Il fenomeno dei resi che non vengono più messi in circolazione ma scartati è difficile da inquadrare. Ci ha provato il report del Positive Fashion Institute del British Fashion Council «Solving fashion return’s problem» pubblicato a marzo 2023: spiega che il 3% di tutti i resi in Gran Bretagna non viene rimesso sul mercati e la metà di questi prodotti viene mandata in discarica, mentre il 25% viene incenerito. Secondo la società americana Optoro, specializzata nelle gestione di resi, invece, i prodotti (non solo di moda) resi che vengono scartati dai retailer arriverebbero al 25% del totale e i prodotti acquistati online hanno il 14% di possibilità in più di finire in una discarica rispetto a quelli comprati in negozio. La ragione è molto semplice: per le aziende non vale la pena trattare, reimpacchettare e rimettere sul mercato un prodotto sotto una certa soglia di prezzo. Questione di redditività. «La marginalità viene garantita solo nel caso in cui il tasso di riacquisto sia di 2 o 3 volte. Rimettere in circolo una maglietta da 10 euro costa troppo», spiega Marcello S.Valerio, ceo e fondatore della piattaforma IfReturns.
La normativa Ue all’orizzonte frenerà il fenomeno?
Un freno a queste pratiche dovrebbe arrivare anche dalla legislazione europea: la Eu strategy for sustainable and circular textiles e la proposta di revisione della Waste Framework Directive (depositata luglio 2023) puntano, tra le altre cose, a ridurre l’enorme quantità di abiti scartati (5 milioni di tonnellate ogni anno, circa 12 kg per persona). «La nuova strategia tessile dell’Unione europea proibirà la distruzione di stock e invenduti - spiega Marina Spadafora, ambasciatrice di moda etica e fondatrice di Fashion Revolution - costringendo le aziende a cambiare rotta. Lo stesso farà Responsabilità estesa al produttore che riguarda direttamente anche il fine vita dei prodotti». Che secondo Spadafora «vanno riciclati nel caso di capi realizzati con un unico materiale oppure sottoposti a procedure di downcycling per i capi misti le cui fibre vengono usate per creare materiali per esempio per l’isolamento nell’edilizia».
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