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Resta in carcere il prete condannato per pedofilia che non accetta la pena

Non può essere affidato a una struttura per il recupero dei sacerdoti l’ex parroco che non inizia un percorso di revisione e anzi si atteggia a vittima

di Patrizia Maciocchi

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2' di lettura

Non può essere trasferito a una struttura che si occupa del recupero dei sacerdoti l’ex parroco, condannato per abusi sessuali su una minore, che non rivede il suo passato deviante e non accetta la sentenza e la pena. Al contrario assume un atteggiamento vittimistico e negatorio, una posizione che continua a ricevere il conforto «dei familiari e dell’ambiente ecclesiastico».

La Cassazione (sentenza 196) ha così respinto la richiesta dell’ex parroco di un paesino lombardo, condannato in via definitiva per gli abusi commessi ai danni di una bambina che frequentava la parrocchia, da quando questa aveva sei anni fino ai 10. Ma la denuncia era arrivata solo dopo la maggiore età della vittima e non era stata ben accolta da alcuni paesani, che avevano anche raccolto delle firme a sostegno del parroco. Questo, mentre la ragazza aveva scritto a Papa Francesco per comunicare la sua sensazione di isolamento e di amarezza.

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La mancata revisione del passato deviante

Oggi la Suprema corte nega al prete la possibilità di uscire dal carcere per finire di scontare la sua pena in una struttura dedicata al recupero dei religiosi che hanno commesso reati sessuali. E lo fa perché il detenuto non ha mai iniziato un percorso di revisione critica del suo passato e non accetta né la condanna né la pena. Senza successo, la difesa dell’imputato nega che la condizione posta dai giudici sia prevista dalla legge, perché il condannato ha diritto di dichiararsi innocente o vittima di un errore giudiziario anche durante la carcerazione. La Cassazione chiarisce però che il problema non è il mancato riconoscimento della responsabilità da parte del condannato ma l’osservazione della sua personalità.

I giudici di legittimità aderiscono alla conclusione del Tribunale di sorveglianza che «ha considerato l’atteggiamento negatorio e vittimistico, di cui dà conto la relazione di sintesi anche per sottolineare il conforto che tale posizione continua a ricevere dai familiari e dall’ambiente ecclesiastico, un indice sintomatico del mancato inizio del processo di rivisitazione del passato deviante, che richiede necessariamente, a prescindere dall’ammissione degli addebiti, l’accettazione della sentenza e della pena». Un passo importante verso il reinserimento sociale. Che, volendo, sarebbe anche in linea con l’insegnamento cattolico - ancora prima che con il principio giuridico - dell’accettazione delle pene terrene.

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