Il nodo della compagnia

Resuscitare Alitalia, una operazione non economica

di Gianfilippo Cuneo

(ANSA)

3' di lettura

È recentemente scomparso Domenico Cempella, unico amministratore delegato di Alitalia ad aver chiuso un bilancio positivo di Alitalia negli ultimi 25 anni. In questa settimana il Governo si appresta a chiudere una negoziazione con la Commissione dell’Ue che verosimilmente permetterà di bruciare altri 3 miliardi di euro nell'irrealistico tentativo di resuscitare Alitalia. In 25 anni non si è proprio imparato niente. Nel 1996 Cempella riuscì ad avere pace sindacale e ridurre costi, ma non riuscì a convincere l’Iri a regalare per davvero la compagna aerea ai dipendenti; io avevo lavorato al suo fianco come consulente, anche se ingaggiato dall’Iri, per trovare una soluzione definitiva per l’azienda, e rimasi stupito come proprio l’Iri si opponesse a liberarsi dell’azienda, magari regalandola ai dipendenti: l’equazione “tante perdite=tanti dipendenti=tanto potere da amministrare” era impossibile da smontare. Lo è ancora oggi, e come ieri si gioca con i soldi degli altri, e cioè dei contribuenti che hanno già buttato via oltre 9 miliardi di euro in varie ricapitalizzazioni, prestiti inesigibili e sussidi vari.

Sarà davvero interessante vedere con quali argomentazioni il Governo potrà dire che investire altri 3 miliardi nell’ennesimo tentativo di resuscitare la compagna aerea è “debito pubblico buono”. Non è che diminuendo il numero degli aerei della flotta la compagnia diventa concorrenziale; perderà solo un po’ di meno. È forse utile ricordare le cinque ragioni fondamentali perché una compagnia di bandiera italiana non possa “volare”, economicamente parlando.

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Ai tempi di Cempella il modello di business si basava sul concetto di hub: uno scalo centrale dove confluiscono i voli regionali e dal quale si parte per le medie e lunghe distanze con un numero sufficiente di passeggeri a giustificare la gestione delle tratte con aerei più grandi. Da allora, inesorabilmente, tale modello si è incrinato, perché la liberalizzazione dei trasporti ha fatto emergere gli operatori low cost che vanno da punto a punto in Europa, sfruttano meglio gli aeromobili e inoltre hanno costi operativi che una compagnia di stato e dominata dai sindacati non riesce ad eguagliare.

Il secondo problema strutturale è che la mentalità di Alitalia è da azienda pubblica, indipendentemente dal regime giuridico e persino dall’azionariato, che un paio di volte è stato formalmente privato. I dipendenti sanno per esperienza che i loro posti di lavoro sono garantiti, direttamente o attraverso faraoniche casse integrazioni; è impossibile negoziare con i sindacati pacchetti di remunerazioni e flessibilità operative confrontabili con quelle di compagnie i cui dipendenti possono anche perdere il posto di lavoro se i bilanci non quadrano. La grande maggioranza delle tratte di Alitalia si confronta con i low cost, non con gli operatori come Air France o Lufthansa, che nel corto e medio raggio sono imbattibili.

Il terzo svantaggio strutturale di una compagnia aerea italiana è che la maggior parte delle rotte intercontinentali (quelle con margini più elevati) va verso il Nordamerica; per un bolognese che voglia andare a Chicago non vale la pena di prendere un volo verso sud per Roma e poi andare verso nord a New York e lì prendere un volo per la destinazione finale: da Bologna si va a Francoforte e da lì direttamente a Chicago.

Un quarto problema strutturale è la penuria di passeggeri business class in Italia, mentre tale categoria contribuisce in modo importante alla redditività delle aerolinee britanniche, francesi e tedesche.

Infine, i passeggeri tendono a privilegiare le linee aeree del proprio Paese: l’Italia era, e speriamo torni ad essere, una meta turistica privilegiata, ma l’Alitalia ha sempre avuto difficoltà ad intercettare i flussi “incoming” mentre quelli degli italiani “outgoing” sono insufficienti a garantire redditività.

Con questi svantaggi strutturali nessun operatore economico serio si cimenterebbe nel tentativo di resuscitare l’Alitalia, ed infatti solo lo Stato si presenta all’appello dell’investimento, magari presentando studi di prestigiosi consulenti che ne dimostrano la razionalità. Quando l’ingegner Cimoli era stato ad di Alitalia vennero spesi oltre 40 milioni di euro di consulenze per dimostrare che l’Alitalia poteva “volare”; sappiamo come è finita. Comunque, dopo che i precedenti governi hanno preso in giro la commissione EU garantendo che i soldi messi nella società non erano aiuti di Stato, che i prestiti ponte sarebbero stati restituiti ecc. si arriverà inevitabilmente ad un qualche compromesso. L’impopolarità politica conseguente ad una ammissione di impotenza (cioè ad una operazione verità) non sembra valere l’ulteriore “debito cattivo” che comunque sarà pagato dalle generazioni future; ma almeno questa volta ci si risparmi la finzione di fare un’operazione razionale!

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