dopo la fusione fca-psa

Reti e formazione per il futuro green di Torino

di Valerio Castronovo

(ArTo - stock.adobe.com)

3' di lettura

La si considerava, Torino, e ormai da tempo, diciamo fin dagli anni Novanta, in seguito all’epilogo del fordismo e ai primi sviluppi della globalizzazione, una città sul viale del tramonto.

Destinata prima o poi a perdere anche alcune rendite di posizione rimastele, dopo che aveva brillato, nel corso di una lunga stagione, al vertice del firmamento economico e al centro dei processi di modernizzazione socio-culturali del nostro Paese.

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Tanto da caratterizzarsi per la sua singolare “vocazione didattica”, per la sua ambizione di far da cerniera fra l’Italia e l’Europa. Per quanto delusa, misconosciuta o ripudiata (anche nei momenti di maggior fortuna), questa sua attitudine a intuire il nuovo e ad assecondarne il trapianto è stata il tratto distintivo del capoluogo subalpino, quale coltivato ed espresso dalle componenti più aperte e dinamiche di una città contrassegnata da una sorta di “diverso permanente”.

Nel suo contesto le trasformazioni determinate dall’industrialismo sono state più dirompenti che altrove, e il conflitto di classe quello più marcato ideologicamente, per l’antagonismo radicale fra un proletariato di fabbrica fortemente politicizzato e le direttrici pianificatrici e pervasive dell’ammiraglia di un capitalismo imprenditoriale privato a capo di una concentrazione di risorse e di maestranze operaie così elevata da avere ben pochi riscontri in altri distretti industriali europei. Di qui l’eccentricità di Torino, di “città laboratorio”, in quanto assurta per molti anni a parametro emblematico dell’evoluzione dell’Italia al passo con le principali nazioni del mondo occidentale.

Oggi il matrimonio fra la Fca e la Psa, sfociato nella creazione di un quarto polo mondiale dell’auto, ha portato nuovamente alla ribalta una città che sembrava appassita, priva di energie per risollevarsi e riacquistare fiducia in se stessa.

Naturalmente si tratta di vedere, innanzitutto, se e come una dinastia imprenditoriale giunta alla sua quinta generazione sarà in grado di co-gestire, nella transizione verso l’auto elettrica, un gruppo sorto da una fusione paritetica ma a trazione francese, in base a nuovi procedimenti operativi sul piano tecnologico e a diverse piattaforme modulari da realizzare su una stessa linea a costi decrescenti. «Siamo nati meccanici» soleva dire l’avvocato Agnelli, quando gli si chiedeva, all’estero, come la Fiat avesse fatto a trasformare Torino in una sorta di Detroit in miniatura, in quanto era stata appunto una cultura del lavoro di matrice artigianale e con una specifica professionalità nella meccanica a rendere possibili i successivi passaggi della Fiat dal taylorismo al fordismo, dalla prima linea di montaggio alla produzione standardizzata in grande serie, in virtù dell’innesto di particolari capacità ingegneristiche e progettuali.

Di certo, la transizione all’elettrico, con l’adozione di piattaforme di ultima generazione, tali da sfornare vetture in ogni settore (a cominciare da quello delle ibride) e da piazzare sempre più anche nel mercato asiatico, (dove dominano i colossi cinesi e giapponesi e la Volkswagen intende affermarsi), costituisce una sfida estremamente difficile rispetto alle partite in Europa e nelle Americhe. Ma la Fca lo sa bene e s’è andata preparando a tal fine su impulso di Sergio Marchionne. Inoltre esistono a Torino sia un habitat di piccole e medie imprese specializzate in attività di progettazione e ricerca, nella componentistica e nel design sia un patrimonio di esperienze, alcune delle quali maturate via via, per opera di grandi player, in altri campi della mobilità e dei mezzi di trasporto, sotto la spinta dell’automazione e dell’hi-tech. Perciò la nascita di Stellantis potrà agire da stimolo e da traino per una gamma di ulteriori opportunità e prospettive, nonché per un ampliamento di iniziative e rapporti internazionali.

È vero, peraltro, che queste implicazioni e ricadute di segno positivo non sono scontate, ma comportano rilevanti interventi di ordine strutturale e robusti input in termini competitivi. Anche per questo occorre che alla comparsa di Stellantis, ossia di uno storico accordo finanziario e industriale a livello europeo in un settore strategico cruciale, faccia seguito una valida politica industriale da parte del nostro governo, come è già avvenuto in Francia, a sostegno di Psa. L’“e-rivoluzione” richiede la messa a punto di una politica volta a coniugare lo sviluppo di un adeguato sistema infrastrutturale con una batteria consistente di investimenti nell’istruzione e nella formazione di capitale umano, ai fini di una migliore qualità del lavoro e dei servizi. Che è quanto sostiene oggi anche la Cgil, all’insegna di nuove forme di partecipazione sindacale e di relazioni industriali, dopo che per tanto tempo aveva seguitato, in particolare a Torino, a coltivare le suggestioni di certi vecchi schemi di “rifondazione sociale” massimalisti e operaisti. D’altro canto, Stellantis può dar vita, se i suoi artefici attueranno effettivamente i loro propositi innovativi, a un importante modello di sviluppo, imperniato sulla creazione in ambito comunitario di campioni di statura sovranazionale e particolarmente sintonizzati con gli obiettivi di sostenibilità ambientale e digitale perseguiti dalla Next Generation Eu.

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