«Ricchezza e fallimento, totem e tabù perversi del capitalismo all’italiana»
Andrea Di Camillo. Uno dei pochi investitori nel segmento del capitale di rischio ragiona su storture, grandezza passata, pregiudizi e potenzialità del nostro sistema economico
di Paolo Bricco
I punti chiave
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«Nel 1995 ero all’ultimo anno di università, alla facoltà di economia e commercio di Torino. Mi mancava soltanto l’esame di Economia politica II con Elsa Fornero. Avevo iniziato a fare la tesi in marketing sulla convergenza fra informatica e telecomunicazioni. In Europa e negli Stati Uniti nascevano le prime forme di multimedialità. Ebbi un problema. L’attività commerciale fondata a Biella dalla mia famiglia nel leasing e nel factoring, una cosa nuova nell’Italia di 25 anni fa, perse il suo principale cliente industriale e iniziò ad andare male, avvitandosi fino al fallimento. Negli stessi giorni a Italia On Line, dove stavo scrivendo una parte della tesi, mi proposero un contratto. Accettai. Ne avevo bisogno. Materialmente perché mi serviva uno stipendio. Emotivamente per un senso di riscatto rispetto a quanto stava capitando alla mia famiglia, perché in Italia, ogni volta che una impresa chiude, lo stigma sociale equipara l’imprenditore che ha fallito a un disonesto che sicuramente ha frodato gli altri. E non era così. Iniziai con Elserino Piol, che guidava Olivetti Telemedia. Capitò tutto insieme: alla Olivetti il desolante svuotamento della componente informatica e la formidabile diversificazione nelle nuove tecnologie e nella telefonia cellulare, a me le difficoltà economiche familiari e la fortuna di un lavoro con Piol, che oltre ad avere avuto l’intuizione di Omnitel, quindici anni prima aveva portato in Italia il venture capital nelle strutture della Olivetti. In quel difficile frangente, chi poteva lasciava l’azienda e non veniva sostituito. Chi rimaneva aveva la sua opportunità».
Investire nel capitale di rischio
Andrea Di Camillo è un investitore nel segmento del capitale di rischio, il punto di raccordo fra finanza e impresa che, nel nostro Paese, è sempre rimasto circoscritto a una piccola dimensione. Fra le sue ultime operazioni compare Tannico, il sito di e-business dedicato al vino fondato dall’imprenditore Marco Magnocavallo, in cui sono da poco entrate Campari e Lvmh e in cui Di Camillo, che ha venduto le sue quote conservando poco più del 10%, ha ottenuto un guadagno pari a dieci volte il capitale investito: Tannico costituisce una non casuale ibridazione fra un modello – il capitale di rischio – culturalmente concepito e sviluppatosi in ambiente angloamericano e quanto di più europeo – italiano e francese – ci sia: le colline e i loro filari, gli uomini e le donne intorno a una tavola.
Siamo all’Osteria dell’Oca Bianca di Cavaglià, alle pendici della Serra che divide, con le sue colline, il Biellese dal Canavese. La giornata d’ottobre è tiepida, anche se il cielo è di un blu metallico, come se dalle Alpi arrivasse già vento di neve. I due osti – Monica Grillo e Paolo Mazzia – hanno ricavato uno spazio esterno sulla piazza della chiesa. Monica ci porta gli antipasti classici della tradizione piemontese: carne cruda di fassona e vitello tonnato, insalata russa e giardiniera, fiori di zucca fritti e paletta biellese, un salume fatto con la spalla del maiale cotta.
Tra crescite industriali e crack societari
La traiettoria personale di Di Camillo descrive la vicenda senza epici arricchimenti personali e senza gigantesche catalizzazioni di crescita industriali e finanziarie, ma anche senza veri drammi individuali e senza violenti crack societari, di un fenomeno come il venture capital italiano, che rimane ancora adesso un convitato di pietra in ogni discorso pubblico su un nuovo modello di crescita nazionale, più frequente nella retorica dei convegni che non nella realtà dei processi economici e sociali, culturali e tecnologici. Secondo l’Aifi – l’associazione che raduna i principali operatori di venture capital e di private equity – gli investitori da noi sono circa una trentina, contro i 150 della Gran Bretagna, i 110 della Francia e i 160 della Germania: fra il 2016 e il 2020, nel nostro Paese l’ammontare investito è stato di 1,2 miliardi di euro, a fronte di 6,4 miliardi nel Regno Unito, 8,3 miliardi in Francia e 8 miliardi in Germania. Sempre secondo l’Aifi, nel 2021 dovrebbe essere superato il miliardo di euro di investimenti in venture capital. La storia è, dunque, ancora tutta da scrivere.
Al novero di specialisti italiani appartiene Di Camillo che, dopo l’esperienza in Italia On Line e in Olivetti Telemedia, ha lavorato con Piol e con Oliver Novick in Pino Ventures Partner, è stato fra i fondatori di Vitaminic, ha fatto il direttore degli investimenti di CirLab del gruppo Cir della famiglia De Benedetti, ha partecipato al lancio di Banzai, ha operato in Principia Sgr e, nel 2012, ha fondato la P101, il cui nome si riferisce al calcolatore da tavolo antesignano del personal computer prodotto nel 1964 dalla Olivetti e il cui perimetro di investimenti ha contribuito a creare, in questi dieci anni, 2.500 nuovi posti di lavoro.
I freni del venture capital
«Dobbiamo chiederci – dice mentre iniziamo con gli antipasti – perché in Italia il venture capital non sia diventato un elemento di crescita strutturale, come è successo altrove. E non parliamo soltanto degli Stati Uniti, che sono un mondo a parte. Oggi il valore complessivo di tutte le startup italiane è al livello in cui erano quelle spagnole cinque anni fa e quelle francesi sette anni fa. Abbiamo sicuramente scontato tre problemi. Il primo è la maledizione della new-economy degli anni Novanta. Startup come Tiscali ed e.Biscom capitalizzavano cifre folli e davano la sensazione illusoria di una ricchezza generalizzata e semplice da afferrare. L’esplosione della bolla nel 2000 ha creato un clima di sfiducia che, a differenza di quanto accaduto in Paesi, da noi non è stato riassorbito ed è perdurato nel tempo. Sono passati vent’anni. E siamo ancora a quel punto. Il secondo problema è che, soprattutto negli Stati Uniti, esiste un pregiudizio negativo, quasi fumettistico, su di noi. Nessuno pensa che l’Italia possa attivare processi imprenditoriali di rottura radicale, in grado di mutare i paradigmi e di alimentare le innovazioni a cui ambiscono i grandi investitori internazionali. Nell’immaginario di chi si muove fra New York e San Francisco, Seattle e Dallas, l’Italia è un Paese incantato dove trascorrere con la famiglia bellissime vacanze. Il terzo problema è che, nella nostra cultura, il fallimento come imprenditore sortisce una sorta di condanna morale e nutre sempre il sospetto di malefatte e di frodi. Il rifiuto della possibilità di un fisiologico fallimento imprenditoriale fa il paio con il nascondimento della ricchezza: quando, nel 2011, ho collaborato con Corrado Passera al ministero dello Sviluppo economico alla costruzione del sistema di incentivi a favore della nuova imprenditorialità, spesso con il ministro ci chiedevamo perché esistesse questo pudore ipocrita sulla ricchezza. La percezione internazionale e la cultura popolare inibiscono alla radice l’irrobustimento del venture capital».
I record dell’Italia
In tavola, intanto, arrivano gli agnolotti del plin al burro e salvia. Da bere ecco una Barbera d’Asti Superiore Nizza, riserva della famiglia, annata 2009, della famiglia Coppo di Canelli. Continua Di Camillo: «Nessuno all’estero sa, e spesso anche noi lo dimentichiamo, che in Italia abbiamo avuto la leadership mondiale negli anni 50 nelle macchine da calcolo con la Divisumma della Olivetti e negli anni Sessanta nella chimica con il polipropilene isotattico di Giulio Natta e della Montecatini. Tutti si sono dimenticati della supremazia nell’auto europea della Fiat di Vittorio Ghidella degli anni 80 e della invenzione di una struttura tecnologica, industriale e di servizi come la telefonia cellulare operata da Omnitel e da Telecom negli anni 90. È vero che, poi, prevalgono i vincoli di un sistema fiscale e giuridico farraginoso, pesante e vessatorio. Costituire in Italia una società e ottemperare a tutti gli obblighi è ancora una impresa. Ma penso che influiscano soprattutto la ragione culturale e il pregiudizio che nel nostro Paese ci sia una sorta di incantesimo negativo: si ritiene che le innovazioni radicali siano impossibili da realizzare. La storia dimostra il contrario. Ma, purtroppo, il pensiero comune è questo. Anche per questo da noi è tutto piccolo: l’entità degli investimenti, il numero di operazioni, la taglia media, perfino la reputazione e lo status degli investitori in capitale di rischio». Tutto è più piccolo, anche le fortune personali che vengono accumulate dagli investitori: «Da noi non esistono i venture capitalist in billions. Il meccanismo imprenditoriale è profittevole, ma ogni cosa è proporzionata», specifica Di Camillo.
Cosa serve all’industria italiana
Gli agnolotti del plin sono notevoli. Ed entrambi indugiamo in un bis. Oggi il sistema industriale italiano ha due necessità: prima di tutto innescare una inseminazione culturale e tecnologica, imprenditoriale e manageriale in grado – come successo nella seconda metà del Novecento – di favorire innovazioni tecnoindustriali di rottura che da noi mancano da almeno 25 anni. Quindi coagulare, attraverso la finanza, processi di crescita intorno a fenomeni tipicamente italiani, come il vino e l’agroalimentare, che finora non sono riusciti a salire di scala.
Purtroppo, niente secondo. Andiamo direttamente al dolce: io prendo una fetta di torta Novecento di Ivrea e lui un cremino di panna con le amarene. «Non ho mai capito perché, in Italia, esistano il tabù della ricchezza e il totem del fallimento imprenditoriale. Non sono un antropologo o uno psicologo sociale. Ma sono sicuro che, se noi italiani modificassimo questi nostri elementi culturali, il venture capital potrebbe attivare tutto l’enorme potenziale che abbiamo nelle nostre imprese», conclude mentre gli osti ci portano il caffè servito con lingue di gatto e biscotti alle nocciole.
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