la trattativa con pechino

Ricerche rintracciabili e censura preventiva: Google pronta a tutto pur di tornare in Cina

di Biagio Simonetta

Google si piega alla censura in Cina

3' di lettura

Pronti a tutto, pur di entrare in Cina. Sembra questo l’imperativo categorico che serpeggia in casa Google. L’azienda di Mountain View è alle prese con una trattativa importante col governo di Pechino per riportare il suo motore di ricerca all'interno dei confini del Paese del dragone, otto anni dopo la chiusura per questioni relative alla censura.

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Stavolta, Big G sembra decisa a chiudere un occhio e ad accettare le politiche cinesi sul controllo di Internet. E secondo The Intercept i lavori sono già in una fase avanzata. Il motore di ricerca pensato da Google per la Cina prende il nome di Dragonfly, ed è stato progettato per dispositivi Android. È in grado di rimuovere i contenuti ritenuti sensibili dal regime del Partito comunista cinese, come le informazioni su dissidenti politici, la libertà di parola, la democrazia, i diritti umani e la protesta. Inoltre, Dragonfly è capace di collegare le ricerche online al numero di telefono di chi le effettua. Un sistema che consente al governo cinese di monitorare le ricerche online dei suoi cittadini. E che può, allora, esporre al rischio di interrogatorio o detenzione chiunque effettui ricerche che secondo Pechino sono vietate. Anche perché l’archiviazione dei dati di Dragonfly avviene su server Google situati in Cina, quindi potenzialmente accessibili alle autorità cinesi.

Dragonfly, secondo quanto emerso da fonti vicine al progetto, sarebbe gestito da Google in partnership con una società con sede nella Cina continentale. Una joint venture imposta da Pechino, con il personale che lavora nella società autoctona che sarebbe in grado di aggiornare le liste nere dei termini di ricerca. Anche i dati relativi a meteo e inquinamento atmosferico presenti su Dragonfly sarebbero sotto controllo governativo, e in questo caso le accuse di manipolazione da parte di Pechino sono note da tempo. Secondo Amnesty International, sentita sempre dal New York Times, l'ok a un'app di ricerca del genere in Cina sarebbe un «giorno buio per la libertà di internet» e costituirebbe «un attacco massiccio alla libertà di informazione e alla libertà di internet».

Google si piega alla censura in Cina

Polemiche e business
Le notizie sul motore di ricerca creato su misura del governo cinese ha esposto Google ad un fuoco incrociato negli ultimi giorni. Ben sedici legislatori statunitensi hanno scritto al Ceo dell'azienda di Mountain View, Sundar Pichai, esprimendo «gravi preoccupazioni». Una decina di ingegneri di Google, inoltre, hanno rimesso il loro incarico sollevando questioni etiche. Ma la volontà di Big G sembra abbastanza chiara: tornare nel Paese del Dragone, che coi suoi circa 800milioni di utenti connessi rimane un vero e proprio eldorado per le società che si occupano di servizi legati a Internet. Un bacino pazzesco dal quale i colossi californiani sono tagliati fuori a causa di ferree leggi sulla censura, e sul quale i colossi asiatici come Tencent e Alibaba hanno fondato i loro imperi.

Per questo, l’inversione di Google – che oggi pare disposta ad applicare i filtri imposti da Pechino pur di rientrare nel mercato cinese – è l'ultimo esempio di come le grandi aziende tecnologiche americane stiano tentando di adattare i loro prodotti pur di avere accesso in Cina. Anche se ciò comporta una retromarcia clamorosa su temi come la libertà di espressione. Qualche altro esempio? LinkedIn, che già censura alcuni post quando ci sono di mezzo indirizzi IP cinesi. Oppure Facebook, che recentemente ha lavorato a una modifica del suo algoritmo che consente di eliminare automaticamente determinati post, con l'obiettivo di entrare sulla Rete cinese (in questo caso va sottolineato che si è trattato di una mera prova, poiché non c'era alcun accordo con Pechino).

Google potrebbe tornare in Cina ma a caro prezzo

Sempre Facebook, nelle ultime settimane aveva ottenuto l'autorizzazione per poter aprire una sua filiale nella provincia orientale dello Zhejiang. Autorizzazione durata appena qualche ora e poi bloccata. Per quanto riguarda Google, invece, è ormai un po' di tempo che l’azienda di Mountain View ha deciso di strizzare l’occhio al mercato cinese. A giugno scorso, Big G ha annunciato un investimento di 550 milioni di dollari nel rivenditore online cinese JD.com. Qualche mese fa, invece, erano stati svelati i piani per aprire un centro di ricerca in Cina incentrato sull’intelligenza artificiale. Senza dimenticare che il recente rilascio sul mercato cinese delle applicazioni per la traduzione e per la gestione di file. Tutte operazioni che hanno portato l’azienda californiana a disporre, oggi, di oltre 700 dipendenti in tutta la Cina. E con il lancio di Dragonfly le cose potrebbero cambiare ancora, accelerando ulteriormente il rientro di Big G in Cina. Nel Paese del dragone, comunque, il rastrellamento di Internet prosegue senza sosta, e solo nella prima metà del 2018 ha portato alla chiusura oltre tremila siti web. Una storia che Google conosce benissimo, ma sulla quale, adesso, sembra pronta a chiudere un occhio.

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