Ricordi di una vita in bottiglia
Si parla spesso di chi produce vino e di chi lo beve e mai di chi lo versa agli altri. Ma uno come Adriano Bellini, che riempie calici da 64 anni, ha molte cose da dire anche su tutti noi
di Valerio Millefoglie
4' di lettura
Al numero telefonico dell'Ais, l'Associazione italiana sommelier, risponde Luciano Pavarotti. La segreteria telefonica, nell'attesa di parlare con un operatore, ha come sottofondo il primo atto de La Traviata di Giuseppe Verdi, «Libiamo ne' lieti calici». Poco dopo, sopraggiunge una voce dotata di una gentilezza che sembra porgere le parole come un sommelier propone una bottiglia. Sono un cliente difficile, chiedo infatti di poter avere il contatto di uno dei sommelier più anziani d'Italia, per farmi raccontare non la storia del vino, ma la storia di chi lo serve. Mi rievocano annate e persone che non ci sono più e che mi avrebbero potuto portare indietro di quasi un secolo. Poi mi propongono alcuni nomi, fra cui quello di Adriano Bellini, classe 1940, di Trieste.
«La mia vita è stata un tomo», mi dice quando lo raggiungo al telefono. «Ero un giovane boy scout in una colonia in Carnia, Friuli, quando mi fecero servir Messa e assaggiai per la prima volta un calice di vino. Ricordo che sentii un sapore dolce e mi dissi “Ecco perché i preti bevono vino!”». A sedici anni inizia a lavorare come barman sulle navi da crociera. Una foto virata color seppia e timbrata “Turbo Nave Avsonia 1965” lo ritrae con i suoi colleghi di lavoro, camerieri e chef, seduti attorno a un tavolino su cui si vedono due fiaschi di vino, due pacchetti di sigarette e una candela.
«Il maître mi aprì un mondo quando mi affidò il compito di servire il vino. Poi, Linda, la mia futura moglie, mi fece provare i vini di suo nonno, in Istria, e capii che in quel mondo volevo entrarci». Nella sua carriera ha servito i presidenti Cossiga, «gli ho proposto uno dei primi imbottigliamenti della Vitovska, vino autoctono del Carso», Scalfaro «per lui ho optato per un Refosco di un'azienda locale», Pertini invece lo ha servito sua moglie, «due vini rossi e due bianchi regionali, per il varo di una nave ai Cantieri di Monfalcone».
I luoghi in cui ha versato da bere sono tanti: saloni di parrucchieri, negozi di moda e un'altra foto dal suo album lo mostra dietro il bancone di una farmacia, alle spalle uno scaffale di medicinali e davanti a sé una distesa di calici. Gli sono passati davanti generazioni di coppie, famiglie, amici, il campione del mondo di boxe Nino Benvenuti. «Il vino è per tutti un grande avvicinatore. Da noi abbiamo la fortuna di avere le osmize, dei luoghi che ricordano le vecchie osterie, che offrono vino e prodotti tipici. Qui l'ingegnere dimentica di essere ingegnere, il dottore non è più il dottore e si siede con l'operaio e si diventa amici. Bere fa cadere le differenze sociali».
Tra le doti che un sommelier deve avere, Bellini inserisce la psicologia. «Se a tavola ci sono quattro donne e quattro uomini e la prima a essere servita deve essere sempre la più vecchia, come si fa a capire chi lo è senza fare gaffe? Io chiamavo un ragazzo di sala così da servire due donne contemporaneamente. Quando poi un cliente si affidava a te chiedendoti “Che vino mi consiglia?”, per capire quale poteva permettersi lo osservavi mentre leggeva la lista dei vini, stando attento se aggrottava le ciglia, lì capivi quindi che i prezzi erano troppo alti».
Se gli si chiede qual è il calice della sua vita, dice che volutamente non ha mai voluto sceglierne uno. Poco dopo aggiunge: «Intorno al 1965 ho assaggiato le primizie di un'azienda di Ghazir, a circa mezz'ora da Beirut, fra cui il Mervah, un bianco autoctono molto aromatico e profumato. Dobbiamo pensare che il Libano ha regolamentato i vini solo nel 2000. Qui a Trieste c'è un ristorante libanese dove ogni tanto andiamo io e mia moglie, così ordiniamo una bottiglia e ricordiamo la gioventù».
In una fotografia del 1979, Adriano cinge la moglie Linda dietro il bancone dell'EnoBar Pipolo. «Inizialmente era una gelateria, mi dissi però che mica si poteva vivere di solo gelato». Nel 1987 diventano proprietari del bar Cin-Cin, di fronte al teatro romano di Trieste. «Il locale era piccolissimo e vedere i clienti che riempivano le scalette per degustare i vini era un piacere, non solo commerciale. Nel 1994 l'abbiamo venduto perché mi trovarono delle macchie nei polmoni e mi dissero che mi rimanevano solo sei mesi di vita. Dopo sei mesi però, io c'ero ancora».
A Cipro, nel '70, dismessi i panni del sommelier sulla nave, passeggia nel mercato quando gli sparano: «Mi avevano scambiato per un inglese, per fortuna proprio in quel momento mi ero abbassato per guardare un pappagallo finto che era appena caduto per terra. Mi ha salvato la vita». E dal suo passato ritorna un vecchio volantino su cui sono disegnati due calici a testa in giù, il vino rosso che ne esce delinea le figure di altri calici e di note musicali. Sopra si legge: «2 note e 2 bicchieri: trasmissione semiseria su enologia, gastronomia, musica. Con eccezionali ospiti in studio e la partecipazione diretta di tutti gli ascoltatori». «Era un
programma che conducevo su una radio privata, Radio 99. Le musiche accennavano quasi tutte al bere: opere, operette e canzoni. Da Innaffia l'ugola, trinca e tracanna di Otello a Er tranquillante nostro cantata da Gigi Proietti. C'erano molte telefonate degli ascoltatori, chiedevano ad esempio cosa fosse il vino novello, quali abbinamenti fare con il cibo che stavano preparando a casa, quanto si poteva bere per poter guidare o in quanto tempo si digeriva un bicchiere di vino».
Alla domanda se i vini che scegliamo un po' ci somigliano, risponde: «I vini somigliano ai nostri momenti di vita. Se sei triste, forse, un vino che ti piace ti fa dimenticare i problemi. A me piacciono il Picolit e il Terrano, che sono regionali, e il Brunello di Montalcino e l'Amarone». Infine, conclude: «Mi hanno sollevato tante volte il morale».
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