Sostenibilità, aziende europee ancora indietro su rifiuti e condizioni di lavoro
Su 50 milioni di lavoratori, solo il 2% ha un salario adeguato e i rifiuti sono quintuplicati tra il 2000 e il 2019. Ecco alcune delle criticità messe in luce dall’osservatorio «Just fashion transition 2023» di The European House-Ambrosetti, che ha analizzato 2.800 bilanci di aziende del fashion italiane ed europee. Importanti i passi avanti sul 2022
di Silvia Pieraccini
2' di lettura
Dieci anni fa, nell’aprile 2013, in Bangladesh crollava il Rana Plaza, causando più di 1.100 morti e 2.500 feriti, e si accendeva un faro sulle condizioni di lavoro nell’industria globale della moda, visto che quell’edificio ospitava diverse fabbriche di abbigliamento. Cosa è successo da allora?
«Tra il 2017 e il 2021 abbiamo registrato un arretramento delle condizioni di lavoro nell’industria della moda: su 50 milioni di lavoratori, solo il 2% ha un salario adeguato», ha spiegato Carlo Cici, partner e responsabile della sostenibilità di The European House-Ambrosetti, presentando al Forum veneziano (si veda l’articolo in pagina) l’Osservatorio 2023 Just Fashion Transition. La condizione di lavoro è solo uno degli aspetti della sostenibilità che Ambrosetti ha analizzato nel suo studio strategico sui bilanci di 2.800 aziende europee della catena di fornitura, di cui 374 valutate con un questionario di sostenibilità. I risultati sono solo in parte confortanti.
Se è vero che le aziende europee nell’ultimo anno hanno fatto passi avanti quantificabili nel 17%, e che quelle italiane li hanno fatti del 16%, soprattutto spinte dalla pressione dei brand che chiedono certificazioni e rispetto di capitolati e anche dalle banche che sollecitano criteri Esg, è anche vero che il nodo dei rifiuti tessili continua ad essere una spina nel fianco del settore. E il comparto del cosiddetto fast fashion ha contribuito a questo fenomeno. «Oggi la moda è il settore che esporta il maggior volume di rifiuti in Paesi non-Ocse e questo valore si è moltiplicato per cinque volte in 20 anni, tra il 2000 e il 2019», ha spiegato Cici, aggiungendo che quando compriamo un capo online e restituiamo un articolo, un reso su tre finisce direttamente in una discarica in Africa o in Cile. Le speranze per ridurre questi rifiuti sono riposte nel riciclo, nel riutilizzo, nel second hand e nell’upcycling: tutte attività in cui l’Italia potrebbe ritagliarsi un ruolo-guida. Anche se sul fronte della comunicazione c’è ancora molto da fare: «Tutti diciamo che vogliamo la tracciabilità – ha concluso Cici – ma poi quando compriamo non guardiamo l’etichetta. Oltre al fatto che, nonostante quanto si sente dire spesso, i dati non mostrano una nuova generazione più sensibile alla sostenibilità».
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