Rimuovere i bias di genere: un mezzo per far evolvere la cultura organizzativa
Il processo si basa sulle competenze di comunicazione, sulla costruzione di relazioni di fiducia, sul valore del supporto, su perseveranza e coerenza
di Eva Campi *
4' di lettura
Quanto conta la cultura organizzativa? Sembra molto. In un recente sondaggio promosso da Linkedin, il 66% dei nuovi imprenditori ha affermato di aver avviato una propria attività in primis per costruire il tipo di azienda per cui vogliono lavorare. Le persone in cerca di lavoro classificano la cultura aziendale tra le posizioni più alte degli elementi attrattivi di un'organizzazione. Sappiamo che l’evoluzione di una cultura si basa sulle competenze di comunicazione efficace, sulla costruzione di relazioni di fiducia, sul valore del supporto e su una buona dose di perseveranza e coerenza. Elemento noto a molti, ma ricordato spesso da pochi, è che le donne, anche se non sono un dirigente o un membro del Cda, statisticamente agiscono questi comportamenti più frequentemente.
Ora, mettendo insieme queste evidenze, è possibile che l’apparente lentezza con cui le culture organizzative si trasformano (tolti gli eventi emergenziali che indubbiamente fanno da acceleratore) dipenda anche dai bias di genere? Da un soffitto di amianto che permane, nonostante le operazioni di bonifica? Iniziamo dalla leadership. Sul fatto che si impari ad essere un buon leader attraverso l’esperienza siamo tutti d’accordo. Tuttavia, quando pensiamo alle esperienze più significative della nostra vita, i momenti “sliding doors”, molto probabilmente sono avvenuti grazie ad un riscontro che qualcuno o qualcosa ci ha fornito, anche inaspettatamente.
Ebbene nel mondo del lavoro le donne, di questi feedback, ne ricevono spontaneamente molti di meno rispetto agli uomini. Vi dirò di più. Recenti studi hanno dimostrato che, anche quando richiesti, si fa fatica a dare un feedback ad una donna e il motivo potrebbe sembrare superficiale, se non fosse profondamente preoccupante. La riluttanza a fornire feedback espliciti alle donne è dovuta, nella maggioranza dei casi, al timore, da parte del manager o del valutatore, di gestire uno stato emotivo inaspettato. Insomma, un costante riproporsi del bias di genere inconscio “le donne sono emotive e piangono”.
Ciò che invece le donne ricevono - o meglio subiscono - più spesso, sono i feedback impliciti. Il contesto ti dice che qualcosa non va: progetti ai quali non sei chiamata a partecipare, riunioni alle quali non sei più invitata. Questi comportamenti agiti diffusamente vanno poi a stimolare nelle donne quella sensazione del “devo dimostrare che sono capace”. Un circolo vizioso che sappiamo dove spesso vada a finire, soprattutto se siamo donne. Da un esaurimento al limite del burn out, ad un aumento esponenziale della sindrome dell’impostore.
Un po’ più di coraggio da un lato e una buona capacità di comprendere e gestire le proprie ed altrui emozioni potrebbero giovare molto, quindi, non solo a far crescere le risorse di un’organizzazione, ma anche a favorire il cambiamento culturale.
Passiamo alla capacità di fare network, la costruzione di una rete relazionale di fiducia. Se vuoi cambiare una cultura occorre fare da attrattore in tal senso. Anche qui, però, un bias di genere interferisce spesso in questo processo apparentemente lineare. Infatti, le donne tendenzialmente ritengono che se fanno un buon lavoro, saranno gli altri ad accorgersi di loro. Questo le porta a promuovere meno loro stesse e le loro idee e di conseguenza ad avere meno connessioni professionali perché effettivamente non le cercano. Morale della favola, un talento relazionale in potenziale, che spesso non viene sfruttato.
Cosa dobbiamo fare per promuovere l'attitudine a fare network? Creare occasioni di incontro arricchenti e momenti di dialogo per iniziare nuove alleanze e rinsaldare legami un po’ usurati potrebbe essere sufficiente per fare da volano a nuovi comportamenti. Oltre a favorire l’engagement di tutti, in generale. E che dire della perseveranza e del supporto? Un punto di svolta, se anche le donne imparano però a valorizzarlo. In linea di massima per tutti avere una visione, un obiettivo a lungo termine, ci porta a perseverare e a tenere la barra dritta.
Questo orizzonte temporale spostato anche più in là di noi stessi (della nostra permanenza nel ruolo o nell’azienda, per esempio) è spesso maggiormente riscontrabile nelle donne. In quali momenti questa caratteristica è dirimente? Ad esempio nelle negoziazioni. A che cosa mirano le donne quando negoziano? Di solito a prospettive di durata più lunga e a relazioni che possano mantenersi e preservarsi nel tempo, più che alla vittoria “one shot”.
La cosa interessante che le scienze sociali ci hanno dimostrato è che questo atteggiamento, che di solito penalizza le donne nel richiedere qualcosa che si realizzi subito e come la vogliono loro (ad esempio una promozione), si capovolge se a beneficiare della negoziazione sono gli altri, ad esempio il proprio team, un/a collega, un/a amico/a. Le donne, in questi casi, esprimono e manifestano un’assertività e una fermezza inequivocabili quando difendono gli interessi di qualcuno a cui tengono o qualcosa in cui credono e che vogliono supportare.
Chiediamoci, quindi, se per cambiare con maggiore efficacia e velocità la cultura della nostra organizzazione non si debba partire dall’identificazione e rimozione dei bias di genere non come fine, ma come mezzo. Un fattore abilitante che insieme ad altri può generare una significativa ed efficace evoluzione di una cultura organizzativa inclusiva e più adattiva rispetto alle sfide di oggi e di domani.
loading...