ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùI Lombardi

Risorgimento in musica di un maestro politico

L’opera, di rara esecuzione, andata in scena alla Scala nel 1843, fu concepita a Milano ed è letta, assieme al «Nabucco», come un frutto della pulsione irredentista del giovane compositore

di Raffaele Mellace

Il Maestro immaginato da Pierpaolo Gaballo a Villa Verdi a Sant’Agata, in provincia di Piacenza

4' di lettura

L’associazione Verdi-Risorgimento parrebbe un’equazione dalla risoluzione facilissima. L’immagine di Verdi padre della patria, con Mazzini Cavour Garibaldi, ha goduto di fortuna pressoché ininterrotta, coltivata, per ragioni eterogenee ma convergenti, per oltre un secolo e mezzo dall’Italia liberale al fascismo, ai diversi schieramenti dell’Italia repubblicana. L’«Avanti!», ad esempio, commemorava Verdi alla sua scomparsa come «l’ultima reliquia del patrimonio morale tramandatoci dalla rivoluzione eroica… la morte sua è la morte di un’idea, di un ciclo storico dell’Italia patriottica». Da alcuni decenni la musicologia anglosassone ha sollevati non pochi dubbi sull’intenzionale contributo delle opere verdiane alla causa dell’Unità nazionale, suggerendo che queste abbiano acquisito solo in un secondo tempo valore patriottico, a prescindere dalla volontà dell’autore.

La questione è complessa: vanno chiamati in causa dati storici e un quadro ideologico in rapida evoluzione, intenzioni artistiche e ricezione; occorrerà tener conto delle dinamiche che danno vita a un “discorso nazionale”, del ruolo del teatro d’opera come deposito di valori e simboli utili alla costruzione d’un mito, della predisposizione d’una generazione in fermento a leggere messaggi in cui identificare le proprie lotte. Quanto basta per ribadire, se non un’intenzionalità immediata, perlomeno l’influenza cospicua di non pochi titoli verdiani nel processo risorgimentale. Non era insomma del tutto infondato quanto scritto nel 1881 nella Vita aneddotica di Verdi di Arthur Pougin, curata e ampliata da Jacopo Caponi (Folchetto): «Con il Nabucco e I Lombardi alla prima crociata - vale a dire con i primi suoi grandi successi - Verdi ha incominciato - direi quasi istintivamente da principio - ad esercitare una azione politica con la sua musica».

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È dunque sicuramente un’occasione felice la possibilità di assistere a una nuova produzione di un titolo chiave di quella temperie, I Lombardi alla prima crociata, non proprio tra i più correnti oggi sui palcoscenici (all’epoca invece in un decennio se ne pubblicarono 245 arrangiamenti): occasione amplificata dall’ascolto contestuale di altri due titoli - il Nabucco e la Messa da Requiem - legati in diverso modo al discorso nazionale. Andati in scena alla Scala l’11 febbraio 1843, I Lombardi sono un prodotto del laboratorio milanese in cui avvennero formazione e avvio della carriera di Verdi; il quale, non lo si dimentichi, trascorse una parte considerevole dell’esistenza nell’Italia preunitaria. Nato suddito del napoleonico Regno d’Italia (il padre aveva dovuto registrarne in francese il nome all’anagrafe), fino al compimento del 47° anno lo fu del ducato di Parma. Nel 1836 compose una cantata per l’imperatore d’Austria Ferdinando I e persino i due titoli bandiera delle istanze irredentiste, il Nabucco e I Lombardi, sono dedicati rispettivamente all’arciduchessa Adelaide d’Austria e a Maria Luigia, duchessa di Parma, la principessa austriaca già moglie di Napoleone.

A Milano Verdi fu accolto da un ambiente formalmente ossequioso dello statu quo ma in realtà insofferente verso il governo austriaco: sentimento che sfociò nella mobilitazione attorno agli eventi insurrezionali del 1848 (cui Verdi contribuirà con la composizione della Battaglia di Legnano, data al Teatro Argentina nei mesi eroici della Repubblica romana, presenti Mazzini e Garibaldi) e, con il fallimento dei moti mazziniani del 1853-56, nell’apertura alle istanze liberali e moderate incarnate da Cavour, per il Verdi del 1859 «il Prometeo della nostra nazionalità».

Prodotto del laboratorio milanese, I Lombardi si basano sull’omonimo poema uscito nel 1826 forte di 2400 sottoscrittori e salutato da Manzoni come «un poema di nuovo genere in Italia». L’autore, Tommaso Grossi, in veste di notaio, avrebbe redatto nel 1846 la separazione legale tra Clara e Andrea Maffei, con Verdi e Giulio Carcano come testimoni, e nel 1848 l’annessione della Lombardia al Piemonte, atto che lo costringerà a riparare a Lugano al rientro degli austriaci. Milanese è anche l’ambientazione del quadro con cui l’opera si apre, sulla piazza di Sant’Ambrogio, non priva di valenza politica agli occhi dei contemporanei, circostanza che non impedì al capo della polizia asburgica, barone Carlo Giusto Torresani, ammiratore di Verdi, di adoperarsi per agevolarne la messa in scena.

Come nelle altre opere verdiane su libretto di Temistocle Solera, nei Lombardi il coro riveste un’importanza primaria, in accordo con quanto propugnato da Mazzini nella Filosofia della musica, il libello pubblicato a Parigi nel 1836. Mazzini aveva auspicato nell’opera un congruo sviluppo di quell’«individualità collettiva» costituita dal coro, dotata implicitamente di una connotazione lato sensu politica. «Perché il coro, che nel dramma greco rappresentava l’unità d’impressione e di giudicio morale, ... non otterrebbe nel dramma musicale moderno più ampio sviluppo, e non s’innalzerebbe, ... dalla sfera secondaria passiva che gli è in oggi assegnata, alla rappresentanza solenne ed intera dell’elemento popolare?».

In linea, peraltro, con le rappresentazioni figurative di soggetti analoghi: nella tela Papa Urbano II sulla piazza di Clermont predica la prima crociata (1835) di Francesco Hayez, protagonista è la folla che s’accalca agitata attorno al palco del papa, non certo il pontefice. E proprio Hayez si rivolse a più riprese al poema di Grossi, con tre disegni diventati litografie, con La sete dei Crociati, commissionatagli da Carlo Alberto di Savoia nel 1833 ma compiuta solo nel 1849, e con quella Morte di Giselda, oggi dispersa, presentata a Brera nel 1844.

Tra i cori verdiani dei Lombardi, all’epoca fece furore quello di crociati e pellegrini «O Signore, dal tetto natio», che ripropone la formula fortunata, di straordinaria semplicità, sperimentata l’anno prima con il «Va’ pensiero» nel Nabucco: l’individuazione di un’idea melodica suggestiva, in grado di veicolare con precisione un sentimento, la nostalgia della patria, proiettata su uno sfondo orchestrale di semplicità naïve e sottoposta a un efficace climax espressivo.

A Napoli nel 1845 lo si eseguì al San Carlo con quasi 500 esecutori e l’anno dopo gli assegnò un ruolo centrale nella sua lirica Sant’Ambrogio Giuseppe Giusti, cui il risuonare del «coro a Dio / là de’ Lombardi miseri assetati; / quello O Signore, dal tetto natio, / che tanti petti ha scossi» lo portava «a non esser più io», facendogli superare il disprezzo per i soldati austriaci nel nome d’una superiore religione dell’arte.

Uscendo dalla finzione poetica, nel 1847 Giusti rivolgerà a Verdi un vibrante appello ad accompagnare con la sua musica il «dolore alto e solenne» della patria, «il dolore d’una gente che si sente bisognosa di destini migliori».

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