Rispetto e diversità. La sfida multiculturale delle organizzazioni internazionali
Il tema dell’eterogeneità culturale e delle conseguenze sulla nostra vita è sempre più cruciale per chi opera e riflette sui nuovi assetti delle grandi organizzazioni
di Vittorio Pelligra
11' di lettura
Viviamo in ambienti caratterizzati da un crescente multiculturalismo. Nelle nostre città si sono moltiplicati, negli ultimi anni, i colori, i profumi, i caratteri delle insegne dei negozi, le lingue e gli accenti del vociare di strada, ma anche i conflitti, la diffidenza e le paure. Questi cambiamenti hanno, naturalmente, avuto ripercussioni anche nel mondo del lavoro: professori e maestri che si ritrovano davanti, ogni giorno, classi colorate e differenziate, attività commerciali che devono venire incontro ai bisogni di una clientela sempre più eterogenea dal punto di vista culturale e imprese che al loro interno annoverano, in quote crescenti, lavoratori dalle più disparate provenienze, con la diversità di background, storia, mentalità e problemi che tutto questo si porta dietro.
Il ruolo della multiculturalità nelle imprese
Il tema dell’eterogeneità culturale e delle conseguenze che produce sulla nostra vita sta diventando sempre più cruciale per tutti coloro che operano e riflettono sui nuovi assetti delle grandi organizzazioni. Una questione, come è facile capire, che è particolarmente sentita nell’ambito delle organizzazioni multinazionali. A riguardo gli studi sono pochi e sparsi, ma qualche risultato inizia a consolidarsi. Le prime indagini, per esempio, sugli effetti di un elevato grado di diversità culturale all’interno delle grandi imprese mostravano, anni fa, una correlazione nulla con la performance dell’impresa stessa: né benefici, né particolari costi legati alla presenza di culture differenti.
Studi recenti che hanno indagato più a fondo questa relazione hanno trovato che l’apparente neutralità del livello di diversità culturale rispetto al funzionamento dell’impresa si deve, presumibilmente, al sommarsi di due effetti contrapposti: da una parte la presenza di una maggiore eterogeneità di culture, pratiche e modalità comportamentali rende più complicata la gestione dell’organizzazione e ne ostacola in varia misura il suo funzionamento efficiente, dall’altra, però, se si riescono a risolvere i problemi che emergono da questa diversità, allora la molteplicità delle culture che si ritrovano a convivere all’interno dell’organizzazione può diventare perfino un vantaggio competitivo (Reus, T. and Lamont, B., (2009). “The double-edged sword of cultural distance in international acquisition”, Journal of International Business Studies 40, pp. 1298–1316).
Comprendere la diversità e di gestirla in maniera inclusiva
Ma le difficoltà da superare non sono poche. Si è notato, per esempio, come la diversità culturale può rappresentare una vera e propria barriera all’introduzione di innovazioni, all’implementazione di nuove tecnologie, ma soprattutto può avere un impatto negativo sul livello di coesione interna dei lavoratori, può determinare incomprensione e frustrazione tra i manager fino a bloccare ogni comunicazione tra persone e divisioni appartenenti ad aree geografiche e culturali differenti.
La chiave di volta in questo processo è definita dalla capacità di comprendere la natura e le conseguenze di tale diversità e di gestirla in maniera inclusiva e, in questo modo, di valorizzarla al massimo. Sviluppare questa capacità è sempre stata percepita come una sfida complessa ed impegnativa. Per poterla vincere occorre, infatti, essere disposti e capaci di cambiare la propria prospettiva naturale, di mettersi nei panni degli altri, di empatizzare fino al punto di “farsi tutto a tutti” (1Cor 9,19-23), per usare la nota espressione paolina.
La prospettiva WEIRD
Ma non si tratta solo di questo. Si tratta anche di comprendere l’origine delle differenze e di accettarle senza la pretesa di volerle ridurre, per rendere mentalità, costumi, comportamenti, più simili e compatibili con il nostro modo di pensare e di agire. Questo diventa tanto più necessario quanto più scopriamo le ragioni che ci fanno diversi e che rendono complessa la gestione di tale diversità.
La nostra prospettiva è quella che gli antropologi e gli psicologi definiscono WEIRD. Il termine non significa solamente “strano”, nella lingua inglese, è anche l’acronimo che sta per “Western”, “Educated”, “Industrialized”, “Rich” e “Developed”. La nostra è la prospettiva di chi vive in occidente, ha un livello medio-alto di istruzione e abita in paesi industrializzati, ricchi e sviluppati.
Siamo una minoranza nel mondo, circa il 12% della popolazione globale, e, soprattutto, siamo diversi da tutti gli altri. Non si tratta solo del modo di mangiare, di relazionarsi, di abitudini e costumi. Le differenze sono cosi profonde da influenzare la cognizione spaziale del mondo che ci circonda, la percezione visiva, gli stili di ragionamento, i concetti morali e molti altri aspetti non secondari della nostra esistenza. Consideriamo la famosa illusione di Müller-Lyer: sono rappresentate due linee orizzontali di uguale lunghezza, ma una ha alle estremità quattro trattini piegati verso l’esterno, la seconda invece quattro trattini piegati verso l’interno.
Quando ci viene chiesta una valutazione della lunghezza relativa delle due linee, la nostra percezione visiva ci fa dire che la prima è, naturalmente, più lunga della seconda. La cosa interessante è che anche dopo aver misurato le due linee e aver scoperto che, effettivamente, sono identiche, continuiamo a vederle diverse, una più lunga e una più corta.
L’illusione di Müller-Lyer non inganna tutti
Questa illusione sembra dipendere dal modo in cui i nostri occhi percepiscono certe immagini ambigue e il nostro cervello processa le informazioni che la retina trasmette. Eppure, non tutti i cervelli sembrano, a riguardo, funzionare allo stesso modo. Quando, la stessa immagine viene mostrata a soggetti appartenenti a gruppi culturali differenti la loro reazione tende a cambiare: i soggetti nordamericani sono i più soggetti all’illusione, mentre un gruppo di minatori sudafricani ne è risultato praticamente immune. In mezzo, tutta una gamma di reazioni differenti associate a popolazioni differenti (Segall, M., Campbell, D., Herskovits, M. 1966. “The influence of culture on visual perception”. Bobbs-Merrill).
Cultura che vai, modo di guardare che trovi
Differenze simili sono emerse per quanto riguarda la percezione dei colori e del modo in cui gestiamo la nostra presenza fisica nello spazio circostante. Da cultura a cultura, cambiano parole, concetti e pratiche relative al nostro orientarci e muoverci nei luoghi che abitiamo. In risultati di un particolare test nel quale si chiede ai soggetti di ricordare a distanza di tempo i dettagli di una immagine presentata sullo schermo del computer si nota che gli asiatici tendono a ricordare molti più dettagli dell’intera immagine, mentre gli occidentali ricordano principalmente le caratteristiche del personaggio presentato in primo piano.
Analizzando con un eye-tracker lo sguardo dei vari soggetti si capisce il perché della differenza: gli asiatici spendono molto più tempo degli occidentali nell’ispezionare con lo sguardo tutte le parti dell’immagine, centro e sfondo, mentre gli occidentali si concentrano quasi esclusivamente sulla figura centrale. È un esempio, questo, di differenza tra pensiero analitico e pensiero olistico che caratterizza le diverse culture. Se vi chiedessi di associare all’immagine di un coniglio alternativamente quella di una carota o quella di un gatto, quale coppia formereste: coniglio-gatto o coniglio carota? La prima coppia indica un pensiero analitico che opera attraverso concetti astratti, in questo caso quello di “animale”; la seconda coppia invece è indice di un pensiero olistico, che si muove seguendo linee funzionali, “il coniglio mangia la carota”. In un indice di pensiero analitico costruito utilizzando test simili a questi, i soggetti appartenenti all’aerea WEIRD, risultano sempre ai primi posti della distribuzione.
La percezione di sè
Ma le diversità non si fermano qui. Come rispondereste a qualcuno che vi chiedesse: “Tu chi sei?”. Naturalmente le possibilità sono tante, però, generalizzando, molti opterebbero per un criterio individuale – “sono un professore”, “sono sardo”, “sono un uomo” – altri invece opterebbero per una risposta basata su un criterio relazione – “sono il papà di Matteo”, “il figlio di Giuseppe” etc.
La percezione che abbiamo della nostra stessa identità personale è frutto della cultura nella quale siamo nati e cresciuti. In un test simile la maggior parte dei ragazzi americani utilizza un criterio individuale nel rappresentarsi a sé stessi e agli altri, mentre gruppi di lavoratori di Nairobi e di Masai, optano per un criterio relazionale. È anche interessante notare che, invece, gli studenti universitari di Nairobi – ragazzi che frequentano università di stampo americano – sono molto più simili ai loro coetanei Usa che non ai loro genitori. Le caratteristiche che differenziano noi WEIRD sono molte altre: non solo siamo più individualisti, ma siamo anche meno conformisti, meno disposti all’obbedienza, ma anche più disposti a fidarci degli estranei, ad avere a che fare pacificamente con membri di gruppi con i quali non ci identifichiamo e più restii a barare per avvantaggiare il nostro gruppo.
Non tutta l’ipocrisia viene per nuocere
Un interessante esempio di queste diversità è quello che riguarda il concetto di “ipocrisia”. Se dovessimo vedere un nostro collega comportarsi in un certo modo, manifestare certe idee e mostrarsi umile e deferente nei confronti dei capi e fare esattamente il contrario, essere sicuro di sé, spavaldo e perfino irriverente con i colleghi e gli amici, cosa penseremmo di lui? Che ha una doppia faccia, probabilmente, che è un ipocrita. Ma se questo comportamento appare strano e irritante in un contesto culturale come il nostro, in altri ambiti, per esempio, in Giappone o in Korea, è perfettamente normale, perfino socialmente appropriato e segno di grande maturità.
Il nostro giudizio negativo ha origine nella tendenza tipica degli occidentali ad attribuire il comportamento che osserviamo negli altri a tratti della personalità che definiscono la persona e che assumiamo essere costanti in tutti i contesti nei quali essa opera. Se sei pigro sarai pigro a scuola, a casa, al lavoro. Se sei esuberante e divertente lo sarai con gli amici e coi colleghi e, con tutta probabilità, anche con i tuoi capi al lavoro. Questo modo di ragionare viene definito “disposizionalismo”, e non è un modo di ragionare generalizzato, caratterizza invece solo noi WEIRD. Si verifica, quindi, che, quando osserviamo qualcuno di un’altra cultura agire seguendo “due pesi e due misure”, siccome interpretiamo il suo comportamento come fondato su tratti della sua personalità, il giudizio che ne emerge è che quella persona sta tradendo ipocritamente la sua stessa natura, è falso, è doppiogiochista.
La nostra visione non è universale
In realtà il problema è nostro, non suo. Siamo noi che analizziamo gli altri sulla base di criteri che riteniamo universali e che invece riguardano la nostra piccola minoranza WEIRD. Altre popolazioni e altre culture si concentrano principalmente sui risultati delle azioni per esprime una valutazione, non sulle intenzioni che immaginiamo di associarvi. Simili profonde differenze riguardano altri aspetti fondamentali del vivere sociale, come la propensione al senso di colpa o al provare vergogna, la pazienza e l’impazienza e perfino ciò che intendiamo con la parola “onestà”.
Supponiamo che vi diano un dado, vi chiedano di lanciarlo e di dichiarare anonimamente il numero uscito. Solo voi conoscete il vero numero e nessun altro avrà la possibilità di verificare la veridicità della vostra risposta. Vi dicono anche che se il numero ottenuto va da 1 a 3, verrete pagati 5 euro, se il numero è pari a 4, 5 o 6, riceverete 10 euro.
Il modo in cui ognuno di noi deciderebbe di comportarsi in questa situazione potrebbe rappresentare un perfetto esempio di test dell’onestà, una moderna risposta al dilemma platonico dell’anello di Gige. In questo esperimento non è, naturalmente, possibile verificare l’onestà del singolo partecipante, ma quella del gruppo sì. Sappiamo infatti che, con un numero elevato di lanci, la probabilità di ottenere un numero compreso tra 1 e 3, si avvicina al 50%, così come quella di ottenere 4, 5 o 6. Se osserviamo una distribuzione nella quale più del 50% dichiara di aver ottenuto un numero maggiore di 3, potremmo allora essere sicuri che qualcuno sta barando.
“Barare” ai dadi non è per forza disonestà
È interessante notare che questa percentuale varia in maniera significativa al variare della nazionalità dei gruppi partecipanti: in Svezia e Germania coloro che dichiarano di aver ottenuto 4, 5 o 6 supera di poco il 50%, in Tanzania, per esempio, ci si avvicina all’85%. Cosa vuol dire questo? Che in Tanzania sono più disonesti che in Svezia? Questa sarebbe la tipica risposta WEIRD.
Le cose in realtà sono più complicate. Qual è il vantaggio, in un esperimento di questo tipo, che deriva dal dire la verità? Quello di rinunciare a guadagnare dei soldi a tutto vantaggio di un ricercatore che, presumibilmente, ne ha molti altri (se non si tratta di un ricercatore italiano) per continuare a condurre i suoi esperimenti. Se invece dico di aver ottenuto 5 anche se ho ottenuto 2, potrò avere il doppio dei soldi come premio, da utilizzare per aiutare un amico, i genitori, qualcuno in difficoltà.
Meglio una piccola bugia o una pessima amicizia?
Se con una piccola bugia poteste evitare di far finire un vostro amico in prigione sareste disposti a mentire per lui? Il 90% circa dei canadesi e degli svizzeri rispondono negativamente a questa domanda, mentre in Korea del Sud quasi tutti sarebbero disposti a farlo. Saremo pure “onesti”, ma certo siamo anche dei pessimi amici.
Questa diversità nel concetto stesso di onestà deriva dalla cultura prevalente che, a sua volta, rappresenta un adattamento evolutivo alle condizioni naturali, sociali ed economiche dei diversi luoghi che hanno influenzato profondamente i diversi popoli lungo la loro millenaria storia.
Sono capaci, le nostre organizzazioni multinazionali, di tenere conto di diversità così profonde e radicate? È sufficiente una spruzzatina di cross-cultural management per risolvere i potenziali problemi che emergono in tali contesti?
Perché è difficile gestire le diversità?
Al momento sembra proprio di no. Per due ragioni principali. La prima riguarda il fatto che gli studi sul fenomeno WEIRD sono ancora agli inizi e i dati che abbiamo a disposizione, benché robusti, riguardano solo alcuni ambiti della nostra vita. Ma il secondo motivo per cui le grandi organizzazioni faticano a gestire efficacemente la diversità culturale riguarda il fatto che gran parte degli strumenti che la psicologia dell’organizzazione ci mette a disposizione sono fondati su conoscenze psicologiche che abbiamo appreso concentrandoci sullo studio di una piccola minoranza degli esseri umani.
Stime ottimistiche mostrano che il 68% dei soggetti considerati nelle ricerche pubblicate nelle migliori riviste di psicologia sono statunitensi e il 96% provengono da Europa, USA, Canada e Australia), cioè i principali paesi WEIRD. Il 96% di soggetti che proviene da paesi che, complessivamente, rappresentano il 12% della popolazione mondiale (Henrich, J., Heine, S., Norenzayan, H., 2010. “The weirdest people in the world?”, Behavioral and Brain Sciences 33, pp. 61–135).
Questo implica che non solo abbiamo una conoscenza imperfetta dei fenomeni in questione, ma anche che gli strumenti che possiamo costruire per gestire i problemi derivanti da questa conoscenza imperfetta, sono basati su una forma di conoscenza dei meccanismi psicologici ormai in via di estinzione, culturalmente distorta e decisamente poco rappresentativa della “natura umana”.
Se le teorie sono WEIRD, gli strumenti di gestione del management cross-culturale non potranno che essere WEIRD anch’essi. Dobbiamo dircelo chiaramente che le pratiche di management, gli stili di gestione delle “risorse umane”, i principi di progettazione istituzionale e di job design sono oggi, nel migliore dei casi, fondati su ciò che sappiamo della psicologia umana.
Occorre riconoscere, però, che ciò che sappiamo della psicologia umana deriva da studi condotti su una piccolissima frazione dell’umanità. E questo rappresenta un problema, non tanto in termini di rappresentatività statistica, ma nei termini, piuttosto, di un’eliminazione indebita della enorme eterogeneità che l’evoluzione culturale cumulativa ha determinato negli ultimi 1,8 milioni di anni e che tutt’ora continua a determinare.
Portatori sani di un devastante etnocentrismo
Continuare a fondare le nostre pratiche organizzative su una visione del mondo WEIRD equivale ad eliminare forzosamente gran parte della diversità che fa del mondo ciò che è, a schiacciare con il peso economico che le nostre organizzazioni multinazionali si portano dietro, tratti che per millenni hanno caratterizzato popoli diversi dal nostro, culture che si sono evolute per risolvere problemi diversi dai nostri, operare in ambienti diversi dai nostri, relazionarsi in strutture sociali diverse dalle nostre. Questo grande patrimonio di cultura e di umanità rischia di diventare vittima di un managerialismo miope e portatore sano di un devastante etnocentrismo.
L’antidoto a tale impoverimento può venire, da un lato, da un maggiore sviluppo della componente multiculturale nell’ambito delle ricerche comportamentali e dall’altra dal potenziamento dei rapporti tra queste e il cosiddetto “cross-cultural organizational behavior”, cioè lo studio delle similarità e delle differenze che caratterizzano le diverse culture rispetto a temi tipici del comportamento organizzativo sia a livello micro, come quelli delle motivazioni, della cognizione, delle emozioni, a livello meso, quando si considerano, per esempio, il funzionamento dei gruppi, il tema della leadership o quello della negoziazione, fino al livello macro che riguarda più gli aspetti della “corporate culture” e del ruolo dei mercati nell’organizzazione sociale di riferimento.
Un problema vecchio di millenni
I problemi legati agli effetti delle differenze culturali nelle organizzazioni economiche sono vecchi di millenni, basti pensare a cosa volesse dire commerciare lungo la via della seta che univa in un unico spazio comune persone, merci, culture e storie dalla Cina orientale fino a Roma, Costantinopoli e Il Cairo. Ma è solo da pochi decenni, da quando le distanze globali si sono enormemente accorciate ed è, di conseguenza, aumentata la concentrazione e le opportunità di incontro, che il tema si presenta in maniera nuova e urgente. Iniziamo ad avere a disposizione anche nuovi strumenti interpretativi e operativi che dovremmo imparare a sfruttare al meglio per rendere le organizzazioni luoghi sempre più accoglienti ed inclusivi e, al contempo, capaci di valorizzare la ricchezza che la diversità culturale esprime sempre e comunque nella vita, e che potrebbe manifestarsi e portare bellezza e sviluppo perfino all’interno di una grande impresa.
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