Rispetto al secolo breve è mutata la nozione stessa di lavoro
Che l’Italia non sia più un Paese da lavori manuali, nonostante vanti un indiscutibile primato proprio in quei settori manifatturieri dove la sapienza artigiana si è trasformata in design, è un dato che si percepisce a vista d’occhio, constatando la poca disponibilità, in chi è ancora disoccupato, a svolgere mansioni destinate sempre più spesso alle mani di extracomunitari.
di Giuseppe Lupo
3' di lettura
Che l’Italia non sia più un Paese da lavori manuali, nonostante vanti un indiscutibile primato proprio in quei settori manifatturieri dove la sapienza artigiana si è trasformata in design, è un dato che si percepisce a vista d’occhio, constatando la poca disponibilità, in chi è ancora disoccupato, a svolgere mansioni destinate sempre più spesso alle mani di extracomunitari. Se negli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso un posto in fabbrica assicurava il conseguimento di uno stabile benessere ed era nelle prerogative di chi, dicendo addio al mondo dei padri (che coincideva con la civiltà contadina), desiderava entrare a far parte dei ranghi di un’industria, oggi non è più così e l’impressione di quanto sia sottostimato nelle attese dei più giovani ci viene confermata dall’indagine sul prestigio delle professioni, svolta da Community Research&Analysis per conto di Federmeccanica, nel 2022, e pubblicata su questa testata qualche settimana fa. L’indicazione che essa fornisce è inequivocabile: nella gerarchia dei mestieri desiderati gli ultimi gradini sono occupati dalle voci contadino, operaio e commesso. Ci si augura un futuro lontano da ciò che nell’immaginario del nostro tempo viene assimilato alla fatica, questo significa la graduatoria, poco conta se poi davvero nell’immaginario che conduce a tali scelte sia contenuto un fondo di verità o, al contrario, non si obbedisca a stereotipi. Sarà stata colpa prima dei fenomeni della globalizzazione (con i consequenziali risultati della dismissione industriale e/o della delocalizzazione), poi della pandemia (che ha smaterializzato il concetto di luogo, tanto da portare nel lessico quotidiano la locuzione «da remoto»), ma la sensazione è che il primo ventennio del Duemila abbia contribuito a modificare, forse definitivamente, la nozione di lavoro. Su questo c’è da fare più d’una considerazione: il nostro tempo è sia figlio di un Novecento prolungato, sia il frutto degenere, il suo stesso rinnegamento. Da un lato si continua a ragionare secondo le coordinate di un secolo che ha fatto registrare un cambio di passo antropologico: da popolo di contadini ci siamo trasformati in popolo di operai per aderire con convinzione al progetto di una civiltà industrializzata. Questo ci raccontano i classici della narrativa industriale e l’esempio più evidente sta nel protagonista de La c hiave a stella (1978) di Primo Levi: personaggio paradigmatico di una redenzione umana che avviene attraverso l’intelligenza delle mani e che contraddice chiaramente l’approccio a quel che voleva significare essere fabbrica secondo una determinata tradizione ideologica, cioè fatica, sfruttamento, sacrifici. Dall’altro, capita a volte di registrare l’auspicio di un ritorno alla natura, qualcuno riesce ad attuarlo in nome tanto della sostenibilità quanto di un rifiuto nei confronti dell’iperciviltà, però nessuno rinuncia alla tecnologia e dunque si tratta di scelte che si presentano secondo il cerimoniale della fuga o velate da una patina di snobismo. In realtà il problema sta nella lettura dei fenomeni. Nonostante i conflitti sindacali, nonostante il dolore operaio, nel Novecento non è esistito in questo Paese un modello alternativo all’industria finalizzato allo sviluppo di una nazione inteso come redenzione di un popolo. La fabbrica poteva perfino essere considerata un male secondo una determinata interpretazione politica, ma era un male inevitabile, un fenomeno da sopportare con pazienza o con rabbia (nascono poco dopo gli anni del boom i romanzi sulla rabbia operaia), l’unico vero strumento di affrancamento da una condizione che, volente o nolente, continuava a far coincidere il mondo contadina con i caratteri di un medioevo posticipato oltre il confine della modernità. Qui sta la contraddizione. Il lavoro manuale, oggi come sessant’anni fa, è un pianeta da cui fuggire appena se ne presenti la possibilità. E se a questa regola non hanno potuto obbedire le generazioni dei padri, quelle cioè che hanno contribuito al miracolo economico, abbandonando il lavoro dei campi per rimediare un salario in fabbrica, almeno siano i figli o i nipoti a beneficiarne. Tutto ciò, però, non basta a giustificare la scarsa considerazione dei lavori manuali. Chi lavora in fabbrica o si occupa di agricoltura, oggi, non obbedisce più alla declinazione novecentesca. L’operaio non veste la tuta blu, piuttosto camici da dottore e siede alla consolle elettronica, il contadino gode di una tecnologia imparagonabile rispetto a quella dei suoi avi. È cambiato la liturgia, eppure perseverano le riserve nella scala delle professioni, alimentando il sospetto che si continui a guardare a queste occupazioni con gli occhi di un redivivo Novecento, ostinato nel non voler cogliere le trasformazioni.
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