Risse e soliti furbetti, come rovinare il magico calcio dei bambini
Ora che il grande calcio è in vacanza, lasciando spazio a un mercato che spazza via qualsiasi bandiera o idea di appartenenza , è il momento buono per parlare di quello che accade ai nostri ragazzi sui campetti di provincia
di Dario Ceccarelli
6' di lettura
Ora che il grande calcio è in vacanza, lasciando spazio a un mercato che spazza via qualsiasi bandiera o idea di appartenenza (il Milan l'hanno spolpato facendoci credere che questa sia la nuova “modernità”, il Napoli si è liberato di Spalletti come se fosse un maggiordomo), è il momento buono per tornare su una vicenda allucinante accaduta a Seregno circa una settimana fa dove, durante una partita parrocchiale tra ragazzini under 9, un dirigente-allenatore intervenuto per sedare uno scontro tra genitori ha perso un rene per un calcio sferrato da uno dei papà partecipanti alla rissa.
Una vicenda quasi incredibile per la quale, denunciato il genitore picchiatore, sono in corso accertamenti. Con un dettaglio ancora più spiacevole: che alla rissa avrebbe preso parte anche una mamma, definita “particolarmente agitata e aggressiva”. Una volta si riteneva che questi comportamenti “estremi” fossero figli di una cultura ultrà soprattutto maschile, ora invece, in questo spropositato e rabbioso sostegno ai figli in campo, non ci sono più distinzioni. L'importante è vincere, costi quel che costi. Con tanti saluti a qualsiasi intento educativo, visto che i primi a dare in escandescenza sono proprio i genitori.
È un discorso spigoloso, quello dell’educazione e del rispetto. Che tornando al calcio parte dai campi delle parrocchie per arrivare agli stadi maggiori dove la cultura della violenza e dell'intimidazione agli avversari è quasi quotidiana: insulti, aggressioni, slogan razzisti, intimidazioni di ogni tipo. Per non parlare di quanto succede fuori dagli stadi, dove ogni settimana migliaia di ultrà obbligano le forze dell'ordine a un enorme lavoro di prevenzione con costi altissimi pagati da tutta la comunità. Non sempre sufficiente, però. Come ben sa chi si è trovato in un autogrill o in un treno con questi scalmanati.
E da qui allora ripartiamo. Dall'educazione, non solo sportiva, che si dà ai ragazzi, ai nostri figli. E lo facciamo tramite un nostro lettore, che chiameremo Andrea, allenatore di bambini del 2015 che hanno giocato (cinque contro cinque) in un campionato organizzato dal Csi che si chiama “Big Small”. E non diamo altri riferimenti per non evitare inutili polemiche. Il succo infatti non è nel singolo particolare, perché tutti possono sbagliare. Il succo è invece nella mentalità che viene instillata, come un veleno a piccole dosi, a dei bambini che a otto anni sono come carte assorbenti. Se li fai crescere nel rispetto delle regole e degli avversari, diventeranno adulti consapevoli e corretti. Nel caso contrario, salvo eccezioni, prevarrà solo una logica: vincere. Con le buone o con le cattive. In barba alle regole, alle norme, ai codici morali.
“È un aria che respiri” ci scrive Andrea. “ Se un bambino vede premiato chi fa il furbo, prima ci rimarrà male. Poi si adeguerà facendo il furbo anche lui. E dopo è inutile stupirsi…”. Andrea parte da una premessa: “Io non volevo fare l'allenatore, perché quando in squadra c'è anche tuo figlio, tutto si complica, anche emotivamente. Però la nostra Polisportiva, che gestisce oltre dieci squadre, era in difficoltà con i bambini del 2015. Dateci una mano, ci hanno detto a me è un altro papà con il quale accompagnavo i ragazzi. Alla fine ci hanno convinti. È bello gestire i bambini: ti ascoltano, capiscono se hai davvero qualcosa da dire. Poi migliori anche tu. Impari a insegnare. E loro ricambiano con passione. Capiscono dove mettersi in campo, quando attaccare e difendere e, soprattutto, imparano a giocare assieme. Lo so, lo si dice sempre: ma è vero. Se un bambino sa giocare con gli altri, poi non lo disimparerà più. E non solo su un campo di calcio”.
“Ma torniamo al punto. In questa stagione abbiamo partecipato a due campionati. Uno da settembre a marzo. Il secondo da marzo a giugno. Giocando su tre tempi senza recupero. Se ne vinci due, hai vinto due a uno. Se invece vinci un tempo, ne perdi uno e pareggi il terzo, finisce 1-1. Ma non voglio dilungarmi su dettagli tecnici. Uno cosa però è importante: l'arbitro è un dirigente della società che gioca in casa”. Andrea prosegue: “Nel campionato invernale siamo andati bene. Sono emerse due squadre: la nostra più tecnica, ma con bambini ancora acerbi fisicamente, che però abbiamo cercato di far giocare tutti per fare esperienza. L'altra squadra, diciamo quella rivale, composta più o meno dagli stessi giocatori. Con un centravanti già ben formato per la sua età. E a quell'età si sente, eccome se si sente. Nel tiro, nel dribbling, nella potenza. Ma non ci si può far nulla. I bambini a volte crescono in sei mesi. Comunque, con questi rivali perdiamo di misura entrambe le volte. I nostri bambini sono naturalmente delusi. Li abbiamo rincuorati. Un secondo posto è già un ottimo risultato, abbiamo detto loro. Lo sport è così. Bisogna accettare la sconfitta e soprattutto imparare a migliorarsi evitando gli errori”.
“Nel campionato primaverile, le cose vanno meglio. Il gioco comincia a vedersi. Partiamo dal basso, con movimenti corali. È un piacere vederli crescere. Vuol dire che hai seminato qualcosa. Alla fine arriviamo allo scontro diretto, con due punti di vantaggio, sempre con la stessa squadra, quella che ha giù vinto il campionato invernale. Una bella rivincita da giocare sul loro campo. Ci sbagliamo. Quando arriviamo al sabato pomeriggio c'è già la prima sorpresa: si giocherà su un altro campo, più piccolo, con lattine e pezzi di vetro che togliamo subito almeno per la sicurezza. Non ci danno una vera spiegazione, ma il motivo è chiarissimo: il loro centravanti, più strutturato fisicamente, in un campo così ridotto segna più facilmente. Ha il tiro forte, è difficile marcarlo. Comunque si gioca senza altre storie. Il primo tempo lo vincono loro, lealmente. E l'arbitro fischia correttamente la fine al minuto esatto”. “Nel secondo tempo siamo in vantaggio noi e l'arbitro, questa volta, prosegue oltre il 15esimo minuto. Ricordo che in queste partite non è previsto il recupero, ma il direttore di gara, che è un dirigente della squadra avversaria, tira ancora per le lunghe fino a quando, dopo le nostre proteste, fischia la fine del secondo tempo. E nel terzo tempo che succedere il peggio. Anche questa volta non è previsto il recupero. Ma lo stesso arbitro, dopo una bella partita ferma sull'uno a uno, dice che ci saranno altri due minuti di gioco. Noi ci facciamo sentire, ripetendo che non si può per regolamento, ma l'arbitro va avanti fino a quando gli avversari riescono a far gol. I nostri ragazzi scoppiano a piangere, un nostro dirigente entra in campo dicendo che non si fanno queste cattiverie a dei bambini di otto anni. A questo punto l'arbitro, dopo averci accusato di aver abbandonato il campo, obbliga i nostri ragazzi a giocare ancora nonostante fossero sotto choc, con le lacrime agli occhi e non sapendo più cosa fare”.
“Quando siamo entrati nello spogliatoio, non avevo più parole. Volevo consolarli, ma cosa potevo dire? Che gli altri erano stati più bravi? No, avrei dovuto dire che erano stati più furbi, più sleali, ma non potevo dire neanche questo. Loro, i bambini, hanno capito che c'è stata una ingiustizia, ma io li ho allenati per farli crescere bene, non per farli diventare sleali o più furbi. Il loro mondo, a quell'età, è ancora magico. Che vinca uno più bravo lo accettano, ma non con questi imbrogli. Lo so, lo so, queste cose sono sempre avvenute nel mondo del calcio, non sono un ingenuo, però un allenatore è anche un educatore: può insegnare a impegnarsi di più, a diventare più bravi, perché sono queste le cose che contano, e ti fanno migliorare. Però, alla fine, nel loro cuore resterà sempre un'ombra: quella che non sempre vince il migliore, anzi. Che spesso, purtroppo, contano altre logiche. Che nulla hanno a che far con lo sport e l'educazione».
Amara conclusione di Andrea. “Altri hanno detto di fregarmene, che la vita è così. Di ridar loro pan per focaccia la prossima volta. Di farmi furbo anch'io.No, grazie, lo faccia qualcun altro. Non è il mondo che piace a me e che voglio per i miei figli. Ho chiamato il presidente e ho dato le dimissioni”.
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