Interventi

Ristoratori, piattaforme e i rapporti di forza ai tempi del Covid

La pandemia ha fatto emergere le tensioni e le contraddizioni di un modello che sta consentendo a molti ristoranti di non chiudere

di Enzo Marasà e Maria Vittoria La Rosa

(REUTERS)

3' di lettura

È sotto gli occhi di tutti che la pandemia abbia accelerato, anche in Italia, la digitalizzazione di molti settori economici. Questa transizione, tuttavia, solleva spesso temi di non semplice soluzione: la ristorazione ne è l'ultimo esempio.

Le restrizioni imposte dalla attuale situazione sanitaria e la conseguente migrazione massiccia dalla somministrazione sul posto alla consegna a domicilio hanno fatto esplodere il tema del “potere di mercato” delle piattaforme di food delivery (Deliveroo, Glovo, Just Eat, Uber etc), accusate dai ristoratori, sostanzialmente, di concorrenza sleale.

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Sembrerebbe un film già visto in altri settori, come i taxi o il turismo. È davvero così? Azioni di contrasto alla penetrazione del mercato da parte degli operatori digitali sono già state tentate, ad esempio, dalle cooperative dei tassisti, ma con scarso successo. Assodato che gli autisti debbano possedere una licenza, infatti, l'autorità antitrust italiana (AGCM) e i Tribunali hanno piuttosto censurato il tentativo delle cooperative di vietare ai tassisti affiliati la collaborazione con le app terze.

In seguito, tutte le maggiori cooperative hanno sviluppato proprie app digitali proprietarie, per tenere il passo del mercato: di fatto, dunque, una maggiore digitalizzazione del settore è un'evoluzione auspicabile sia economicamente sia a livello competitivo, prima ancora che giuridicamente.

La ristorazione non ne è esente e sta già sviluppando iniziative digitali autonome: ad esempio MyBalloon, realizzata da Nexus, che permette ai ristoratori di sfruttare direttamente spazi di e-commerce gratuiti per commercializzare i propri servizi di consegna senza avvalersi di un fornitore terzo.

Anche il concetto di “concorrenza sleale”, poi, è discutibile. Gli albergatori francesi, ad esempio, avevano accusato Airbnb di operare nel settore senza possedere la licenza prevista dalla legge statale: la Corte del Lussemburgo, tuttavia, ha bocciato la tesi, ritenendo che Airbnb non offra i servizi propri di un operatore turistico, ma sia un mero intermediario della società dell'informazione, in quanto tale soggetto allo speciale regime di responsabilità di cui alla direttiva e-commerce (2000/31/CE).

Le piattaforme di delivery, del resto, operano per agevolare l'incontro tra domanda e offerta di servizi di consegna ai ristoratori e loro clienti, ma non sono concorrenti dei ristoratori, nello stesso modo in cui le piattaforme di prenotazione viaggi non competono con i vettori e gli albergatori, ma piuttosto forniscono loro servizi di supporto.

Si lamenta poi l'eccessivo “potere di mercato” delle piattaforme, ma il concetto sembra utilizzato in senso atecnico, perché è difficile riscontrare “posizioni dominanti” in senso stretto (ovvero di quasi monopolio) nel mercato dei servizi digitali di food delivery, già piuttosto affollato. Le piattaforme al più potrebbero ricadere nella definizione di “gatekeepers” prevista nella proposta di Digital Markets Act avanzata a dicembre dalla Commissione UE ed essere quindi in futuro sottoposte, tra gli altri, ad obblighi di neutralità e condivisione di dati con i concorrenti e divieti di condotte negoziali e commerciali inique: ma ciò non accadrà domani.

Un'ipotesi accusatoria pertinente alla concorrenza potrebbe al limite vertere sull'esistenza di un “cartello” tra piattaforme a danno dei ristoratori, ma allo stato manca di riscontri probatori. L'esperienza ci dice dunque che il diritto della concorrenza (i.e., concorrenza sleale o divieto di intese anticoncorrenziali o di abuso di posizione dominante) non è necessariamente lo strumento migliore per risolvere i contrasti che possono sorgere tra operatori tradizionali e piattaforme online.

Nel frattempo, si potrebbero studiare interventi normativi mirati a vietare o temperare alcune delle clausole criticate dai ristoratori, come già avvenuto ad esempio nel settore agroalimentare per equilibrare i rapporti di forza tra grande distribuzione e piccoli produttori. Oppure si potrebbe valutare l'applicabilità della normativa sulla dipendenza economica, posto che al momento la ristorazione in loco è fortemente limitata (se non impossibile): in tal caso, le clausole contrattuali contestate potrebbero essere vietate perché squilibrate ed abusive. In entrambi i casi, tuttavia, potrebbe trattarsi di una situazione transitoria legata al contesto pandemico.

Counsel e of counsel, Portolano Cavallo

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