Ritratto dell’arte (che sarà) contemporanea
Il web onnipresente e il nuovo volto dei musei, il trionfo delle immagini in movimento e le strategie del mercato. Che cosa ci offriranno i prossimi anni? Scenari creativi, sabotaggi e tentativi di cambiare il mondo
di Leonardo Merlini
15' di lettura
I primi due decenni del Ventunesimo secolo, coerenti con l’età della Grande Accelerazione che continuiamo a vivere, hanno portato notevoli cambiamenti anche nel mondo dell’arte. Il primo, macroscopico e in linea con quanto avvenuto nella società, è stato l’esplosione di internet e il ruolo cruciale che ha assunto, con la Rete come luogo chiave dell’intero Sistema. La dimensione social, la promozione su Instagram, la necessità di rendere tutto adatto a Instagram, sono diventate caratteristiche comuni a praticamente tutto il grande mondo che ruota intorno all'arte. Sulla stessa linea d’onda si sono mossi i principali musei, che hanno modificato se stessi in maniera profonda per diventare luoghi non solo di fruizione, ma pure di produzione di contenuti da condividere da parte dei visitatori, invitati espressamente – come ha ben spiegato Claire Bishop in un saggio sulla spettacolarizzazione nei musei – a scattare e diffondere immagini. Non bisogna essere troppo vecchi per ricordare quando, per fotografarsi con un Kandinskij al Centre Pompidou di Parigi, bisognava camuffare la fotocamera; oggi è esattamente l'opposto («Se non usi i social nessuno si fida», rappa Fabi Fibra).
Allo stesso modo, la performance – formato che arriva dalle avanguardie del Novecento, ma che nei Duemila ha preso una strada nuova, fertile e interessante – ha invaso le sale museali con sempre maggiore frequenza e pieno diritto di cittadinanza, cambiando ancora una volta la percezione che il luogo vuole dare di se stesso, giocando – come notava sempre Bishop – su una rinnovata ambiguità tra il white cube tipico della galleria d'arte e il black box della dimensione teatrale. Una mutazione che, a livello di mainstream, in qualche misura ufficializza quello che è probabilmente il più importante scarto del contemporaneo, ossia il definitivo e (almeno per ora) non reversibile superamento di tutte le differenze di pratiche. Si fa con tutto era il bel titolo di un saggio di Angela Vettese sul linguaggio dell'arte contemporanea, ed è così, oggi più che mai. E tutto vuol dire spesso proprio tutto.
Leggendo pensatori del presente come Hans-Ulrich Obrist o David Joselit, poi, si capisce anche come gli anni Zero e Dieci abbiano rappresentato un'ulteriore compenetrazione tra l'arte e l'architettura, con quest'ultima diventata sempre più cruciale per il modo in cui il contemporaneo pensa se stesso, non solo per il fatto di offrire i luoghi dove la prima viene fruita, ma anche, ovviamente, nell'essere parte di ciò che è fruito, essere impresario e attore della grande messa in scena, essere soggetto e oggetto culturale primario. Che poi, se ci pensate, è ciò che cercano di fare anche gli artisti più importanti e influenti (Philippe Parreno, Kara Walker, Tomas Saraceno, Tino Sehgal…), proprio perché se, come scrive Agamben, il contemporaneo è colui che torna in un presente nel quale non siamo mai stati, questo presente “nuovo” va ricostruito in toto, nella complessità quasi infinita dei suoi elementi, che simbolicamente certe pratiche artistiche riescono a sussumere in una modalità che diventa anche una manifestazione del concetto filosofico di “esserci”, il dasein di Heidegger e della filosofia tedesca.
Tornando all’architettura, accanto alla rinnovata centralità della disciplina, è anche importante notare una crescente dimensione che potremmo chiamare etica, un'attenzione ai diritti, alla consapevolezza di agire in un mondo che sta attraversando una fase cruciale alla quale la pratica degli architetti può offrire risposte in positivo per la comunità (altra parola che il Ventunesimo secolo ha l’opportunità di usare al meglio). Risposte che restano architettoniche, culturali o artistiche, come più vi piace, ma che segnano uno scarto rispetto alla stagione più sovraeccitata delle superstar. A guardare i nomi dei curatori delle ultime Biennali di architettura di Venezia, dove il presidente Paolo Baratta ha sostenuto con convinzione la “sfida etica” in un’ottica comunque di promozione del desiderio di nuove architetture, si percepisce come il passaggio da Chipperfield e Koolhaas (2012 e 2014) ad Aravena e al duo irlandese Farrell-McNamara (2016 e 2018) rappresenti un modo chiaro di giocare questa partita, che per il 2020 porterà ad affrontare, con il curatore Hasim Sarkis, il tema chiave del come possiamo vivere insieme.
Aspetti, quelli del ritorno alla comunità, che sempre di più appaiono anche nel lavoro degli artisti, che, dalla postura avanguardista di rottura dei canoni, sempre più negli ultimi due decenni si sono mossi verso il dialogo con il mondo al di fuori del sistema dell'arte ufficiale, proponendo (con Joseph Beuys come nume tutelare) pratiche crossdisciplinari o azioni sul territorio capaci di influenzare la vita reale delle persone. Citare il nome di Theaster Gates e quello che ha fatto partendo da Chicago in questo senso è inevitabile: per riassumerlo possiamo usare la brevissima descrizione che ne fa Art Review, che stabilmente da anni lo inserisce tra i Power100 del mondo dell'arte: «L’artista che agisce più fuori dalla galleria che al suo interno». Fuori, nel mondo, tra le persone reali che forse non hanno neppure idea di cosa sia l'arte contemporanea, ma che trovano delle risposte concrete nel lavoro di Gates (personaggio straordinario, che in occasione della mostra all’Osservatorio di Fondazione Prada mi ha raccontato della lotta quotidiana tra lui e la realtà, alla fine della quale i detriti che restano sul terreno sono la sua arte). Quello stesso fuori nel quale si muove, con un misto di radicalità punk e abile gestione della propria leggenda, un artista come Banksy, altro protagonista del primo ventennio degli anni Duemila che rappresenta anche un nuovo modo di porsi (e vendersi, per l'amor del cielo, vendere serve) nei confronti del pubblico e degli “addetti ai lavori”.
Tra fiumi di dollari e pietre miliari
Il mercato allora. Per quanto riguarda l'arte contemporanea i rapporti di Artprice ci raccontano che nel 2000 valeva 103 milioni di dollari, mentre nel 2018 si è toccata la cifra di 1,89 miliardi, quindi 1.890 milioni di dollari, con una crescita di quasi 19 volte. Una bolla? In parte certamente, anche se nel grande mare del mercato complessivo dell'arte il contemporaneo continua a incidere molto meno delle opere del Dopoguerra e soprattutto della vasta categoria del Moderno. Ma se si guarda ai tassi di crescita e a dati come l'aumento delle quotazioni di molti artisti viventi (ricordate i 91 milioni per il Rabbit di Jeff Koons?) si può probabilmente apprezzare il valore di questo “peso specifico” in termini che non sono solo quelli della percentuale complessiva delle vendite. Anche perché ciò che ha lasciato il segno nelle ultime due decadi a livello di grandi mostre sono stati quasi sempre eventi poco adatti alla mera logica di mercato, sebbene poi siano stati degli innescatori di valore, ma questo è inevitabile e giusto.
Pensiamo al leggendario intervento di Olafur Eliasson alla Tate Modern del 2003, il sole di The Weather Project, oppure all'installazione in Pirelli HangarBicocca a Milano dei Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer (non a caso il lavoro da cui parte Vincenzo Trione nella sua corposa analisi della contemporaneità recentemente pubblicata per Einaudi, L'opera interminabile). Pensiamo al modo in cui Parreno ha ricostruito dei mondi autosufficienti e “senza opere” a Parigi, a New York e ancora a Milano, o alla grande retrospettiva su Matthew Barney e il suo ciclo Cremaster al Guggenheim di New York. Vengono in mente salti evolutivi, scarti profondi, eventi dopo i quali è stato difficile pensare l'arte nella stessa maniera. Questo discorso, e qui probabilmente sta la parte ancora più affascinante, vale anche per mostre che invece hanno saputo unire la radicalità e il mercato, in termini che potevano sembrare perfino sfacciati, e possiamo scegliere se citare per prima l'antologica di Maurizio Cattelan ancora al Guggenheim newyorchese, All, curata da Nancy Spector, oppure il folle e indimenticabile volo di Damien Hirst a Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia con la Grande Narrazione (ironia geniale che a proporcela proprio nell'epoca del fallimento delle Grandi Narrazioni sia stato l'ex ragazzaccio YBA di Bristol) Treasures from the Wreck of the Unbelievable. Un'altra storia rilevante di questi anni è stata poi, sia a livello culturale sia di mercato, l'ascesa della Cina, con l'esplosione di nomi e quotazioni ben oltre la figura divenuta iconica (e oggi anche un po' sdrucita, se ce lo permettete) di Ai Weiwei. Qui i primi segni di rallentamento sono arrivati in fretta, ma la domanda di arte che viene dalla nuova classe benestante cinese resta uno dei fattori chiave del presente e del futuro.
Due ultime notazioni: la prima riguarda il proliferare delle Biennali e l'apertura di nuovi musei in giro per il mondo, sintomo di una effervescenza, ma anche di un occhio speculativo delle destinazioni, che sempre più pensano l'arte, soprattutto contemporanea, come una forma di marketing (e le operazioni culturali dei Paesi produttori di petrolio sono la manifestazione evidente di questo progetto, legittimo e per molti versi meritorio, che fa inoltre pensare alle logiche di decolonizzazione e deoccidentalizzazione che sono movimenti motore del cambiamento contemporaneo). La seconda riguarda, ed è forse perfino banale scriverlo, l'ingresso a pieno titolo nel mondo dell'arte della fotografia e del film, quelle “immagini in movimento” che sono probabilmente l'ambito più eccitante delle ricerche contemporanee e che alla Biennale di Venezia hanno trovato straordinaria cassa di risonanza attraverso opere come The Clock di Christian Marclay o Grosse Fatigue di Camille Henrot, fino all'ultimo Leone d'Oro per la Mostra internazionale assegnato ad Arthur Jafa. E anche questi sono tre nomi che danno un senso a ciò che è stato fatto in questi vent'anni.
Lo sguardo al futuro prossimo
Quali scenari si possono provare a immaginare per i prossimi vent'anni? Alcune linee di sviluppo non potranno prescindere da quelle precedenti: i musei, per esempio, è prevedibile che continuino a evolversi nel senso di offrire esperienze sempre più individualizzate, sempre più ricche di quella componente spettacolare, nei casi migliori come istituzioni consapevoli del proprio ruolo che sempre più sarà costantemente in divenire. Non a caso, la già citata classifica di Art Review pochi mesi fa ha visto al primo posto il direttore del MoMA di New York, Glenn Lowry, che ha annunciato l'evoluzione del proprio museo esattamente in questo senso. Una sorta di “incertezza istituzionale” che può rappresentare una vera risorsa per fare sì – come ha teorizzato Joselit – che «dopo l'arte» possa iniziare «il vero lavoro». Un lavoro che riguarderà anche la componente politica delle opere e delle azioni d'arte, in continuità con gli approcci à la Theaster Gates, ma con modalità che si diversificheranno e che molto probabilmente riguarderanno il modo in cui pensare noi stessi in un mondo alla vigilia di epocali mutazioni: cambiamenti climatici, la fine del lavoro come lo abbiamo inteso finora, la diffusione su vasta scala delle intelligenze artificiali.
Anche le pratiche e le esperienze artistiche del prossimo futuro dovranno confrontarsi con questi elementi. Cerchiamo sempre più qualcuno, una guida che possa spiegarci come vivere nelle mutate condizioni del mondo contemporaneo: un lavoro per filosofi, ma anche per chi, come gli artisti, possa ricomporre frammenti di appercezione della realtà, attraverso la mimesi a più livelli della rappresentazione o la creazione di ambienti in grado di restituire un'idea di senso (nonché di quella strana cosa che una volta avremmo magari chiamato “umanesimo”). Una caratteristica che queste battaglie potranno avere la si può ricercare oggi in alcuni autori di riferimento come Mark Fisher, con la sua visione così lucidamente punk («Più punk per tutti», viene la tentazione di scrivere), oppure Donna Haraway, con la sua teoria del Cyborg e delle parentele da costruire tra le diverse specie che abitano il mondo ormai “infetto”, o ancora Paul B. Preciado, il filosofo del gender e della nuova definizione del concetto di identità, una specie di Wittgenstein aggiornato al nostro iper-presente che ancora non ha trovato il linguaggio con cui autodefinirsi.
A cambiare invece non potrà non essere il rapporto tra arte e Web: se la penetrazione di massa di smartphone e app (con tutte le evoluzioni in senso di estensioni corporee che già si osservano) continuerà a crescere, e con essa il potere dei colossi che controllano il sistema, già ora siamo entrati in quel “dopo internet” che Leonardo Bigazzi ha fatto oggetto dall'ultima mostra del progetto fiorentino Visio (nell'ambito del festival Lo schermo dell'arte) intitolata, con ripetizione solo apparente, After post internet. Il mondo della Rete dei nuovi anni Venti sarà per forza il mondo di questo after, in cui prenderà piede un utilizzo dei social in un'ottica “call to action” che sarà anche una moda (come sempre accade), ma nelle sue frange più sostanziose sarà comunque qualcosa di concreto, di reale: una forma, appunto, di azione – come si dice da quando la parola “performance” è uscita dai vocabolari artistici più raffinati. In un certo senso, internet sarà tutto, ed essendo tutto perderà alcune caratteristiche specifiche ed “esclusive”. Scomparirà, come scompaiono le vere sovrastrutture di potere, diventerà invisibile e onnipresente, e sarà il campo della maggior parte delle ricerche, delle persuasioni, ma anche delle battaglie (culturali e non solo) che, si spera, gli artisti continueranno a proporre. Che si potranno anche configurare come atti di sabotaggio in Rete, nello stesso modo in cui nel 1948 George Orwell ha compiuto un atto di sabotaggio letterario chiamato 1984 nei confronti di un potere totale come era, all'epoca, quello dello stalinismo sovietico (ma in realtà era proprio il Potere, con la maiuscola e senza troppi aggettivi intorno).
Un Grande Sistema a prova di sabotaggio
Bisogna chiedersi come potrebbe reagire il mercato a queste nuove pratiche, che in diversi modi gli sarebbero formalmente ostili. È probabile che il mercato riesca ancora una volta a inglobare i propri “nemici”, attraverso la classica tattica della cooptazione sorridente. In questo senso, le mega sovrastrutture sono molto più laiche di qualunque istituto “umano”, per la capacità mimetica di adeguarsi, in modo da trasformare qualunque contesto nel proprio contesto, con naturalezza. Che è l'unico modo in cui si possono fare di continuo rivoluzioni clamorose e invisibili. Pensate alla percezione del brand Apple. Potrebbe bastare, ma aggiungiamo anche, per fare un esempio, il modo in cui i marchi globali sono entrati – tutti – in eventi che una volta nascevano come di rottura e controcultura, come per esempio le sfilate del Gay Pride. O, ancora, alla “conversione ecologica” delle case produttrici di automobili o la “battaglia contro il fumo tradizionale” delle multinazionali del tabacco. La controcultura, quando diventa di massa, è il boccone perfetto per il Grande Conformismo (soprattutto al tempo del Digitale Imperante, come ci insegna James Bridle), ma è altrettanto vero che questo processo garantisce che il sistema vada avanti nel modo che sta bene praticamente a tutti noi; ci permette di mantenere il business as usual delle nostre esistenze, ci regala anche momenti che possono essere chiamati di felicità.
È una felicità che è parte di un Grande Sistema orientato al Profitto, e il sabotaggio, dopo una fase di contrapposizione, potrebbe diventare un nuovo top lot per le aste degli anni Trenta. In ogni caso, uscendo dalla filosofia dei massimi sistemi, i numeri degli ultimi anni parlano, per il mercato complessivo dell'arte, di un sostanziale posizionamento stabile sopra i 62 miliardi di dollari, con punte fino a 68. Nel breve periodo si potrà abbattere il muro dei 70 miliardi, ma molto in questo senso dipenderà dal modo che si troverà per normalizzare – prima ancora dei sabotaggi del futuro – le pratiche già ora (e già ieri) più difficili “da appendere al muro”: azioni, eventi collettivi, opere ambientali o prive di rappresentazione, ma anche teatro, letteratura, danza (la Biennale Danza è una delle cose più belle che accadono a Venezia, una manifestazione di super-arte, una uberkunst). C'è la documentazione, certo, ci sono le prove online; ma per fare il botto è ragionevole ipotizzare che serviranno anche altre forme, nuove, nella definizione delle quali pure i musei giocheranno un ruolo con le loro mutazioni. Perché è inevitabile che il contemporaneo dovrà, a tendere, essere il settore trainante non solo delle idee, ma anche delle vendite e del botteghino (che in ultima analisi sono ciò che permette agli artisti di sopravvivere, non va dimenticato).
Che cosa succede in Italia
In tutto questo scenario, forse solo immaginato (ma Gilda Williams mi ricorda che uno dei modi in cui si può rispondere alla domanda su “come scrivere di arte contemporanea” è “comportandosi come arte”, allora anche il “saggio immaginario” potrebbe sperare in una piccola cittadinanza), cosa succede in Italia? «Gli artisti italiani che riescono ad avere un dialogo con il mondo al di fuori dell'Italia sono pochi, troppo pochi», ci ha detto Vincenzo de Bellis, che ora dirige il Walker Art Center di Minneapolis, in un passaggio a Milano. «Non dipende da loro, e certamente non dipende dalla loro qualità. Stando all'estero mi sono accorto di come la qualità degli artisti italiani sia elevatissima, sia dal punto di vista concettuale, sia per quanto riguarda la loro preparazione culturale. Quello che manca è l'apparato di supporto, e in un momento in cui la comunicazione rappresenta tanto a livello globale avere un sistema che supporta gli artisti è fondamentale».
Il primo proposito per i prossimi due decenni, molto prosaico ma fondamentale, possiamo dire di averlo incassato. Un secondo potrebbe essere una maggiore capacità di pensarsi in termini più larghi, più vaghi, meno legati all'accademia (nel senso più generico e anche un po' qualunquista, se volete, del termine). Provo a spiegarmi usando le parole di uno dei curatori che definiscono in qualche modo il Sistema del contemporaneo, come Dieter Roelstraete: «Contribuire a, oppure essere parte di qualcosa che non tollera definizioni o altre forme di delimitazione (quindi essere parte di qualcosa che è in definitiva non conoscibile: non sapere cosa stiamo facendo) è uno dei modi nei quali la “cultura” in generale essenzialmente continua a prodursi», ha scritto in un saggio per e-flux. Il testo poi prosegue aggiungendo che, per Roelstraete, l'arte contemporanea non rientra in questa definizione di cultura, il che torna a complicare le cose. Ma oggi, qui in Italia, potremmo accontentarci di prendere la prima parte del ragionamento del critico tedesco e auspicare una maggiore tendenza a una consapevole sfocatura. Come diceva Gerhard Richter, «Io sfoco per rendere tutto uguale, ugualmente importante e ugualmente non importante»: il punto è questo, abbandonare la chimera del racconto definitivo, della totalità romantica dell'arte, cosa che può tornare a manifestarsi (e lo fa) solo quando sa perfettamente di non volerlo e di non poterlo più fare in nessun modo evidente e documentato. Non ci sono più i singoli eroi del romanticismo, ahinoi, ma ci sono i flussi, le generazioni involontarie, il “buzz”, ossia il costante ronzio di cui scrive la Haraway. E oggi le cose succedono, quelle più strane e interessanti, proprio nel “buzz”
Senza volere in nessun modo stilare un canone o una classifica, senza nessuna pretesa di esaustività, ma solo con lo spirito di un cronista che ha battuto alcune strade, azzardo un piccolo elenco di nomi che danno un senso a quanto accade (e potrebbe accadere nei due decenni che dovrebbero essere l'oggetto di questo testo) in Italia: Bigazzi e de Bellis sono già stati citati, poi Andrea Lissoni, ma a livello di curatele, progetti, fiere o musealità non possiamo non ricordare Ilaria Bonacossa e Alessandro Rabottini, che guidano rispettivamente Artissima e miart con risultati importanti, oppure curatori più esposti alla ricerca come Gaspare Luigi Marcone, Ginevra Bria, Eugenio Viola ed Edoardo Bonaspetti (ma vorrei spendere una parola anche per un visionario orientato a quello che va più in là dell'umano come Matteo Mottin), oltre a figure museali come il direttore della GAMeC di Bergamo, Lorenzo Giusti o Nicola Ricciardi che rappresenta l'anima creativa delle OGR di Torino.
E poi ci sono gli artisti, e qui, ancora di più, qualunque elenco non avrebbe nessun senso complessivo, e non vuole averlo. Ma possiamo dire che, tra i molti altri che potrebbero dire la loro nel corso di questa prima metà di XXI secolo italiano, Rebecca Moccia, Pamela Diamante, Elisa Sighicelli, Stefania Fersini, Andrea Francolino, David Reimondo, Emiliano Ponzi (ovviamente limitandomi alla non-categoria dei cosiddetti “giovani” o, forse anche peggio, “emergenti”) sono nomi interessanti, che testimoniano – ripetiamo, in modo parziale – la vivacità a più facce, dall'installazione alla grafica, del movimento. Che grazie all'azione dei musei e dei grandi big privati come Fondazione Prada e Pirelli HangarBicocca a Milano, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino e Palazzo Grassi-Punta della Dogana a Venezia (oltre che delle molte realtà più territoriali, dalla Fondazione Merz alla collezione Maramotti), resta capace di competere, pur con tutti i limiti di cui si diceva, anche a livello internazionale. Scenario sul quale si stanno affermando, ed è ragionevole pensare che continueranno a farlo, anche molte gallerie, spesso guidate da giovani, come nel caso, per fare solo un nome, di Tommaso Calabro a Milano.
L'auspicio, quindi, è che anche in Italia si possa aprire un nuovo decennio di ricerche, di problemi, di intersezioni sempre più fitte tra l'idea di arte e l'idea di mondo. Un decennio nebbioso e potenziale, ricco di quel «casino cacofonico» – per usare una brillante definizione di e-flux – «capace di generare enorme speranza». E, scendendo dal generale al particolare, per questa prima parte di 2020 possiamo già citare qualche mostra che potrebbe aiutarci a imboccare la strada verso quella cosa che abbiamo provato a chiamare futuro, partendo dal ritorno in Italia di Tomás Saraceno, a Palazzo Strozzi a Firenze, invitato da Arturo Galansino (un altro direttore capace di interpretare con intelligenza e un'idea di visione la relazione tra il contemporaneo e il pubblico) per creare uno dei suoi ormai iconici spazi assoluti, nei quali si possono fare esperienze tra la biologia e la fisica. E la scienza, usata in modi eterodossi, estetici e provocatori, è anche al centro della personale di Trevor Paglen alle OGR di Torino: satelliti per ridefinire un modo di pensare lo spazio, sia esso quello espositivo, sia quello esterno, il luogo della meraviglia kantiana, della fantascienza e delle ultime frontiere (per citare volutamente Star Trek).
E poi due appuntamenti a Milano: al PAC arriva Tania Bruguera, l'artista cubana per cui viene naturale pensare l'aggettivo “influente”, pur con la consapevolezza di una certa consunzione per l'uso, ma in questo caso siamo aderenti alla realtà di un lavoro che ha ispirato e ispira; infine, in chiusura d'anno, aspettiamo la personale di Steve McQueen in HangarBicocca realizzata in collaborazione con la Tate Modern di Londra. Quattro mostre tra le moltissime, quattro scelte personali e, come sempre, inevitabilmente parziali, ma che possono dare un’idea tangibile di come potrebbe iniziare a scattare (e a scartare dalla linea dell'ovvietà e del già-troppo-visto) questo decennio che si è appena aperto. Con la dichiarata speranza (proprio quella che deriva dal “casino cacofonico” del contemporaneo) che lo scarto sia brusco, profondo e sorprendente.
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