Ritratto dell’Uomo risorto
di Gianfranco Ravasi
4' di lettura
In una conferenza tenuta a Harvard nel 1969 dedicata all’Arte di raccontare storie, Borges riconduceva a un trittico le opere fondamentali per l’umanità: «l’Iliade, l’Odissea e un terzo “poema” che spicca notevolmente sugli altri, i quattro Vangeli. Le tre storie, quella di Troia, di Ulisse e di Gesù, sono bastate all’umanità. Ma nel caso dei Vangeli c’è una differenza: la storia di Cristo non può essere narrata meglio». Questo indiscutibile primato della figura di Cristo nei secoli successivi è confermato anche da una spia “quantitativa”: secondo Piero Stefani nel suo Gesù (Mulino, 2012), «si calcola che solo nel XX secolo sono usciti centomila libri a lui dedicati».
Abbiamo, così, pensato in questa Pasqua, festa capitale del cristianesimo, di aprire qualche spiraglio su una figura così fondamentale per l’umanità a prescindere dalle diverse opzioni religiose. La questione che più ha intrigato negli ultimi decenni (ma con prodromi che partono dal ’700 illuministico) è quella del cosiddetto “Gesù storico”, affidata a ricerche sempre più sofisticate e complesse, una fisionomia non di rado contrapposta al “Cristo della fede”. La base documentaria su cui condurre tale verifica – al di là di qualche attestazione esterna romana o giudaica pur significativa ma marginale – è naturalmente costituita dai Vangeli.
Ora è ben noto che questo particolare genere letterario impasta storia e fede, dati oggettivi (history) e narrazione interpretativa cristologica (story). Bisogna, però, riconoscere che questo fenomeno è strutturale a ogni attestazione documentaria storica. È ciò che aveva limpidamente dimostrato il filosofo Luigi Pareyson nel suo saggio Verità e interpretazione (Mursia, 1971) secondo il quale la verità storica a noi proviene sempre attraverso un tramite interpretativo. È il famoso “circolo ermeneutico” delineato da Hans G. Gadamer nel suo testo Verità e metodo (Bompiani, 1983) e rielaborato da Paul Ricoeur nel Conflitto delle interpretazioni (Jaca Book, 1995).
Ovviamente non possiamo in poche righe descrivere l’operazione condotta dagli studiosi su questa base di sua natura polimorfa per individuare alcuni lineamenti strettamente “storici” di quel volto. Un’operazione, per altro, sempre problematica perché – come ha scritto uno dei nostri maggiori esegeti contemporanei, Romano Penna – «la testimonianza fa tutt’uno con il Testimoniato», senza il quale la stessa attestazione si affloscia. Rimandando ancora a Pareyson, è suggestiva la comparazione che egli propone: «L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, la quale tuttavia, per il suo carattere necessariamente personale e quindi interpretativo, è sempre nuova e diversa, cioè molteplice. Ma la sua molteplicità non pregiudica per nulla l’unicità dell’opera musicale... L’esecuzione non è copia o riflesso, ma vita e possesso dell’opera».
In questa luce si giustificano i quattro Vangeli e la loro diversa prospettiva nel rappresentare l’unico Gesù di Nazaret. Attraverso essi possiamo individuare elementi sufficienti per ricomporre un profilo essenziale di quel personaggio che è stato come lo “spartito” sul quale gli evangelisti hanno intessuto i loro testi. Noi, ora, vorremmo puntare solo ad alcuni tratti che rivelano la coscienza “cristologica” del personaggio Gesù. Pensiamo, ad esempio, alla sua originalità rispetto alla matrice giudaica a cui pure apparteneva, come il suo atteggiamento autoritativo («È stato detto agli antichi... Ma io vi dico» in Matteo 5,21-48) nei confronti della Legge biblica, del sabato, delle norme di purità rituale, dei peccatori e degli emarginati e così via. Pensiamo anche alla centralità della categoria “Regno di Dio” nella sua predicazione e all’auto-identificazione che Gesù pretende con essa, così da realizzarla nella sua persona e nella sua opera.
Si pensi anche alla sorprendente applicazione a se stesso della definizione “Figlio dell’uomo” che nel giudaismo aveva una carica trascendente molto forte sulla base dell’interpretazione messianica di un passo del cap. 7 del profeta apocalittico Daniele. Oppure si noti il suo ardito riferirsi a Dio con l’appellativo familiare aramaico di abbà, “babbo”, o il suo comportamento critico nei confronti di molti paradigmi teologici, morali, rituali comuni nel giudaismo del suo tempo (emblematica la sferza impugnata nel tempio contro una prassi consuetudinaria). La sua è, dunque, una netta coscienza identitaria, dotata di un’autorità che sconcerta i suoi avversari e che propone un modello morale imposto come norma ai suoi seguaci. Dopo tutto, la sua condanna a morte da parte del Sinedrio, sia pure a livello strumentale, ha come capo di imputazione il reato di blasfemia, cioè l’arrogarsi una qualità divina.
È significativo che tale “cristologia” di Gesù stesso (nel senso soggettivo del genitivo) sia riconosciuta dall’analisi persino di alcuni studiosi ebrei contemporanei. Così, ad esempio, David Flusser scrive senza esitazione nel suo Giudaismo e le origini del cristianesimo (Marietti, 1995): «La coscienza che Gesù ha del suo valore elevato era tutt’uno con la certezza che la sua persona non era intercambiabile con qualunque altro uomo». Il rabbino americano Jacob Neusner nella sua Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù (Piemme, 1996) adotta una sorta di parabola. Egli immagina di seguire Gesù per le strade della Galilea e di incunearsi tra i discepoli che salgono con lui sul monte delle Beatitudini.
Fino a quel momento è stato affascinato dall’insegnamento di un rabbí così originale. Ma lassù, quando lo sente affermare, come abbiamo già accennato: «È stato detto agli antichi... Ma io vi dico», introducendo una equiparazione tra la Torah divina e la sua parola, egli viene colto da un brivido di orrore: «Ora mi rendo conto che solo Dio può esigere da me quanto Gesù richiede». E così, silenziosamente il rabbino abbandona la vetta e scende nella pianura ove si ricompatta col popolo ebraico, aderendo solo alla Torah del Sinai come è interpretata dai maestri di Israele.
In sintesi, la questione, che abbiamo voluto solo evocare e che è affrontata con ampiezza da un’imponente bibliografia, ha come sbocco dominante la tendenza a non collocare dialetticamente e fin antiteticamente il Gesù storico e il Cristo della fede, pur nella diversità dei livelli e delle rappresentazioni. Anzi, come afferma un noto studioso tedesco, Martin Hengel, si può «dimostrare una continuità in molti punti tra l’attività di Gesù in atti e parole e la predicazione della Chiesa primitiva».
loading...