Musica Eventi

Rivoluzione di corde e martelletti

di Quirino Principe

. «Grand Pianoforte», realizzato nel 1840 dalla Manifattura Érard su disegno di George Henry Blake

4' di lettura

Quando un libro riesce ad essere limpido e visibile sino al midollo, e sa illuminare la mente del lettore? Ma è chiaro: quando svolge un discorso complesso che non teme di deviare occasionalmente verso innumerevoli dettagli, soprattutto se le occasioni sono, auspicabilmente, molte. L’affollamento delle conoscenze riesce a completare il disegno, finalmente divenuto trasparente, purché la molteplicità del sapere superi la soglia oltre la quale la quantità diviene qualità di sapienza. Ci si attende sempre questa qualità dai libri di saggistica e storiografia musicale di Piero Rattalino, e questo, di cui parliamo, viveva già da trentacinque anni nella cultura d’Occidente, persino (incredibile dictu) nella cultura musicale italiana, amputata e demolita dall’esterno ossia dallo Stato, e tradita al suo interno. Edita dal Saggiatore nel 1982, la Storia del pianoforte, dedicata a Vincenzo Vitale maestro inestimabile di due o tre generazioni di pianisti illustri, seguiva sin dall’origine una finalità che a dirsi è ovvia e doverosa, e laboriosa a realizzarsi: «Indicare le correlazioni e i rapporti tra i diversi argomenti ̶ (costruzione e fabbricazione, letteratura, didattica, vita concertistica )̶ in cui viene abitualmente divisa la storia di ciò che lo strumento è e di ciò che rappresenta» (pag. 9).

Tredici anni dopo la prima pubblicazione e le numerose ristampe, l’autore e l’editore convennero sulla necessità di alcuni ritocchi. Non molti: la correzione di maggior peso, propriamente un aggiornamento, fu, come spiega Rattalino nella premessa all’edizione del 1995, la datazione delle Sonate K 330-333 di Mozart, «che solo dopo il 1982 fu rettificata grazie agli studi di Alan Tyson» (pag. 10). Questa nuova edizione, molto desiderata, ripresenta l’energia e la vitalità di un’opera storico-saggistica che sin dalla prima pagina incatena l’attenzione del lettore, in curioso contrasto tra la luce irradiata da queste pagine e il buio pesto verso il quale le condizione della musica in Italia sta precipitando.

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Si è immediatamente attratti dalla scioltezza e dall’ironia con cui Rattalino ci guida in quel mondo complesso e tutto vie traverse, ponti e canali comunicanti che è la sua dichiarata finalità: intendere “il pianoforte” come: (a) lo strumento in quanto macchina, la sua meccanica, i suoi materiali di costruzione mutevoli lungo tre secoli esatti di storia; (b) l’invenzione che il mondo deve al cembalaro Bartolomeo Cristofori (Padova, martedì 4 maggio 1655 – Firenze, sabato 27 gennaio 1731) al servizio di due granduchi di Toscana, Ferdinando e suo figlio Cosimo III de’ Medici, e al lavoro successivo di molti “perfezionatori”, fra cui Christoph Gottlieb Schröter; (c) le benemerenze dei primi compositori, come Lodovico Giustini pistoiese, o Carl Philipp Emanuel Bach, che degnarono di attenzione la novità da molti altri snobbata; (d) lo sviluppo della letteratura per pianoforte; (e) la poco lieta vicenda per cui l’Italia, benché terra di nascita del padovano iniziatore, fu assente sia dalla produzione meccanica e industriale sia dall’invenzione di una nuova letteratura per il nuovo strumento, a vantaggio di tedeschi e di inglesi prima (Zumpe, Broadwood, Backers), di francesi poi (Pleyel, Érard); (f) il modo in cui la struttura meccanica e acustica del pianoforte influì sul lavoro di compositori sommi come Beethoven, Schumann, Liszt, Skrjabin, eccetera, e, all’inverso, come il linguaggio e gli obiettivi artistici dei sommi compositori fossero sovente determinanti nei confronti dei costruttori.

Ai lettori, consigliamo di soffermarsi con attenzione sulle pagine in cui Rattalino analizza il rapporto tra l’estensione della mano dei leggendari pianisti compositori e “virtuosi”, la raggiungibilità di intervalli di decima e persino di undicesima, la prensilità di pollice e mignolo proporzionale alla possibilità di non appiattire la mano (con conseguente qualità di suono), e la scrittura musicale, sul pentagramma, di celebri capolavori.

La conoscenza magistrale di questo mondo (usciamo dal libro con la certezza di avere esplorato un universo autosufficiente) detta a Rattalino episodi i cui dettagli, altrimenti, sarebbero isolati ciascuno in sé, e che invece, grazie alla complessità con cui si legano e alla molte luci accese, colpiscono come illuminazioni, spingendoci verso porte che finalmente si aprono. Segnaliamone alcuni: la gelosia reciproca tra Mozart e Ignaz von Beecke (pag. 50); la trasformazione stilistica e culturale di compositori pianisti come Carl Maria von Weber (le pagine di Rattalino su di lui esigono attenzione per le sue magnifiche e oggi poco conosciute Sonate), Felix Mendelssohn, Ignaz Moscheles, nel drammatico superamento dei limiti del Biedermeier (pagg. 108 ss.); il rapporto insieme affettivo e creativo (Eros e ispirazione) tra Robert Schumann e Clara Wieck, forse meno presente, lei, in questo libro di quanto avremmo desiderato; la mano abnormemente grande di Adolph von Henselt, e la sfida tra il suo pianismo e i due Concerti per pianoforte e orchestra di Chopin.

Splendida la sintesi di Rattalino a proposito di Schumann: «Con Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert la sonata aveva raggiunto un grado di sviluppo tale da renderne impossibile una ulteriore evoluzione; per Schumann […], la forma-sonata diventa un problema di rapporto con la storia, non di sviluppo storico» (pag. 140). Un enunciato d’importanza capitale.

Tante luci, e qualche immagine malinconica, piovosa, tale da rammentare Arsenio di Montale: come la poesia scritta intorno al 1895 (la trovate a pag. 283-284, citata per intero) da un trentenne Ferruccio Busoni: il pianista, celebre e ammirato quanto si vuole, infreddolito dal viaggio in uno squallido treno e fradicio di pioggia, al quale l'impresario non sa dire nulla di meglio che: «Lei è arrivato in ritardo!».

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