narrativa italiana

Romanzi di idee forti, non esili trame!

di Filippo La Porta

4' di lettura

Un romanzo può impicciarsi della nostra esistenza, può chiederci se riteniamo di vivere come si deve, se siamo contenti di noi stessi? Sì, a patto che glielo permettiamo. Il nostro paese è carente non tanto ( e solo) di lettori forti ma di lettori che sappiano corrispondere a questa specifica vocazione del genere romanzesco. Inoltre: la letteratura è fatta di idee più che di trame. Un romanzo mediocre non è sorretto da una idea del mondo abbastanza solida. Nasce da una visione delle cose opaca o confusa. Al contrario, tre romanzi italiani recenti sono sostenuti da una idea forte, drammatica ma non disperante, dell’esistenza, presa dentro i meccanismi inesorabili del vivere sociale, e sempre “esiliata”. Tutti e tre sfiorati dalla immagine di una possibile, benché dolorosa e inconclusa, redenzione individuale.

Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio è un romanzo ossessivo, straniante, scritto in una lingua elegante e densissima, inzeppato di cose e di intertestualità, dove l’autofiction implode dentro un vuoto insondabile che sembra tutto inghiottire. Quasi le “memorie del sottosuolo” del protagonista, che ha lavorato molti anni in una galleria d’arte contemporanea (proprio come l’autore), nel quadrilatero di tortuose stradine del centro storico di Roma teatro delle azioni scellerate di Caravaggio (il cui fantasma si riverbera sull’intera narrazione). L’io narrante racconta da un carcere, recluso per un delitto mai commesso, e ci parla di un saggio sul Gran balordo (Caravaggio) mai scritto. Così come nell’Educazione sentimentale di Flaubert e nella Noia di Sartre – romanzi sullo sfondo – la vita reale sembra svolgersi nebbiosamente solo nell’attesa degli eventi, o in qualche atto mancato. E apprendiamo perfino che Berenson, per il quale Caravaggio non aveva il dono di stare al mondo, forse si fingeva (inarrivabile) critico d’arte per vendere quadri e arricchirsi. Nell’universo della dissimulazione ogni cosa ne specchia un’altra (come Pincio rimanda a Pynchon!): la vita autentica inizia nel momento in cui recitiamo, calandoci «in una versione presentabile della nostra persona». Autoritrarsi è prepararsi alla morte. L’intero romanzo, cronaca di un fallimento che tutti ci riguarda, si può leggere come memento mori e anzi necessità del morire. Nella condizione di carcerato lui almeno non deve più aspettare i Tartari: la sua visione, come la pittura di Caravaggio, è antimalinconica, «perché affondata nel presente», indifferente al futuro e ai ruderi del passato.

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In Le cose di prima di Eduardo Savarese (Minimum Fax) il protagonista, Simeone, un ragazzo malato di distrofia muscolare, e con una “eccedenza di vita”, percorre un complicato itinerario di formazione, tra la amicizia amorosa con una coetanea depressa, una relazione erotico-sentimentale con un celebre soprano, il rifiuto di esperienze da condividere con altri “disabili”, una Madre iperaffettiva e la straziante nostalgia del Padre in fuga (in Medio Oriente). In Palestina un vecchio frate lo invita a una morte metaforica, “felice”, in cui spogliarsi del proprio io. Nel finale canta davanti al pubblico del monastero francescano, «sciolto dai condizionamenti della malattia, dalla vergogna di non essere all’altezza» e soprattutto finalmente «presente a se stesso, in quell’istante, in quel luogo». Riuscirà così a liberarsi delle “cose di prima”, come Caravaggio di ruderi e rovine. Lo stile sobrio dell’autore inframezza la storia, in modo “calvinianamente” felice (e quasi per raffreddarla un poco), con scambi dotti di mail sulla fisica delle particelle (che - tutte - condividono un destino comune) e sui buchi neri ( che possono scavarsi passaggi in un altro universo ma senza più poter tornare al proprio).

In Un marito di Michele Vaccari (Rizzoli) Patrizia e Ferdinando gestiscono a Marassi una rosticceria che sembra il «ristorante di Alice»: «un’enclave nell’impero della velocità mangereccia». L’incipit somiglia a un poema cosmogonico in prosa: Sole sa che per esistere «ogni giorno deve scegliere dove e quando vivere», seguito da Luce, «diaframma del suo abbacinante vibrare». La prosa vibra anch’essa, intensamente metaforica («le tapparelle inventano un’alba a righe»), con alcuni effetti sgraziati («ingozzando come oche aspettative…») da esuberanza espressiva, e con una vocazione lirico-saggistica un po’ à -la Tiziano Scarpa. La coppia è conservatrice e abbarbicata al suo quartiere (unico del pianeta dove «lo stadio e il carcere si trovano sulla stessa via»). Gelosa della propria impresa di «antiquariato gastronomico», teme le novità. Si concedono una vacanza-premio a Milano, dove li raggiunge la Storia, però come catastrofe: una bomba scoppia di fronte al Duomo uccidendo lei. Di qui una lunga terapia di Ferdinando per elaborare il lutto. Capisce che per amare qualsiasi cosa occorre accettare che quella cosa cambi. E, in modo non dissimile da quello che abbiamo visto nei precedenti romanzi, alla fine sente che l’unica “eternità” è, laicamente, quella di un presente capace di accogliere passato e futuro.

Tre romanzi dove l’affabulazione non è parassitaria (la nostra malattia attuale secondo Pincio: «tutto viene pensato in termini narrativi»!) ma al servizio di una idea del mondo che si traduce in uno stile personalissimo. I loro autori non vogliono solo intrattenerci: su questo terreno la letteratura ha concorrenti troppo temibili. Però interrogano caparbiamente le nostre esistenze e sollecitano la nostra empatia. Non ci offrono soluzioni. Tutti e tre indicano un rischioso spostamento di prospettiva necessario al “saper vivere”, una “morte” anche traumatica ma indispensabile per poter fare di nuovo esperienza delle cose. Senza volerlo rivendicano un saldo primato della parola scritta sulle chiacchere della comunicazione e sulle inesauribili suggestioni visive dei media.

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