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Russi, indiani e turchi pronti a spartirsi l’ex Ilva

Uno scenario di produzione zero da parte di Taranto porterà a uno sbilanciamento della bilancia commerciale dei prodotti siderurgici, già pericolosamente in bilico

di Matteo Meneghello

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3' di lettura

Un’Italia senza la produzione di laminati piani (in estrema sintesi sono i coils, i «rotoloni» prodotti dall’ex Ilva) è un’Italia che, inevitabilmente, dovrà prestare il fianco ai flussi di importazioni dai Paesi terzi. Lo confermano i dati di Federacciai relativi alla prima metà dell’anno, che segnalano il rischio di un pericoloso sbilanciamento, nel futuro, se gli altiforni di Taranto dovessero cessare la produzione. Russi, indiani, serbi, turchi premono alle porte e sono pronti a colmare il «vuoto» lasciato da Taranto. Ma lo faranno alle loro condizioni.

Il segno sui numeri della produzione siderurgica
Le difficoltà della gestione di ArcelorMittal nel secondo trimestre hanno già lasciato il segno sui numeri della produzione siderurgica italiana. I dati di Federacciai, aggiornati a settembre, segnalano nell’ultimo mese un calo dell’1,1%, con una produzione di 2,208 milioni di tonnellate. Sulla distanza dei nove mesi la produzione è di 17,621 milioni di tonnellate, circa il 4% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, quando l’output era stato pari a 18,328 milioni di tonnellate. Rimbalzi all’orizzonte non se ne vedono: il presidente di Federacciai, Alessandro Banzato, ha sottolineato nell’ultima assemblea dei soci che non si aspetta miglioramenti significativi, ritenendosi soddisfatto se la frenata dovesse confermarsi di questa dimensione.

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I due operatori in Italia
Leggendo la suddivisione tra i due principali segmenti produttivi («piani» e «lunghi»), aggiornata ad agosto, emerge però come il peso principale della flessione sia da imputare ai primi. In questo mercato, in Italia, operano sostanzialmente due operatori: ArcelorMittal Italia e Arvedi. Entrambi stanno subendo le difficoltà del mercato (Arvedi ha annunciato un taglio della produzione del 70% in questi ultimi due mesi dell’anno), ma a preoccupare maggiormente è l’ex Ilva. Nel solo mese di agosto, con la cassa a Taranto e i primi segnali di resa di ArcelorMittal (anche a causa di eventi come il sequestro del quarto sporgente legato all’infortunio mortale di un gruista), la produzione di piani italiana è crollata del 31 per cento.

Lo scenario
Nei primi otto mesi dell’anno la produzione italiana di coils è stata di poco superiore ai 5 milioni di tonnellate, in linea con il trend dell’anno scorso, chiuso a dicembre con 8,436 milioni.

Ma da questo mometo in poi, se la casella Ilva verrà cancellata, cambia tutto. Con lo scenario Ilva-zero non potrà essere Arvedi a supplire al fabbisogno italiano di coils. Bisognerà ricorrere alle importazioni.

Nei primi sette mesi i volumi di importazione di coils stanno già quasi eguagliando la produzione italiana: 5,069 milioni l’output, 4,174 milioni i flussi commerciali, di cui 2,206 milioni provenienti da paesi extra Ue (sono già diventati 2,7 milioni nei primi nove mesi, il 5,6% in più). Nei primi sette mesi del 2018 le importazioni di piani (tutti, non solo i coils) erano state pari a 7,615 milioni, quest’anno sono cresciute del 7,1%, a 8,154 milioni. Il sorpasso e il ribaltamento della bilancia commerciale italiana, in questo segmento, sembra inevitabile.

Chi festeggia
A festeggiare sono i soliti: turchi, indiani, coreani, russi e serbi. Nel solo mese di settembre i coils russi entrati in Italia sono quasi raddoppiati, passando dai 159mila dell'anno scorso a 278mila. Nei primi nove mesi le aziende turche hanno venduto in Italia quasi un milione di tonnellate di coils, gli indiani hanno aumentato i volumi del 14,8% (da 455mila a 522mila tonnellate), la Serbia è cresciuta del 24,8 per cento. Il quadro del 2019 è quello di un paese ancora protetto, seppure in maniera giudicata insufficiente dai produttori, dalle misure salvaguardia decisa dall’Ue. In uno scenario in cui dovesse rimanere solo Arvedi come produttore l’industria italiana risulterebbe molto più esposta al ricatto commerciale dei produttori esteri, con conseguenze nocive sui prezzi, ma anche sulla continuità delle forniture.

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