Rwanda, 25 anni fa scoppiava il più grande massacro etnico dai tempi dell’Olocausto
di Ugo Tramballi
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“Alle 9.30 locali di ieri sera si sono sentite due forti esplosioni nell'aereo che stava atterrando a Kigali con i presidenti di Rwanda e Burundi a bordo. Il velivolo è precipitato in fiamme”, gracchiò il transistor Sony broadband. La Cnn già esisteva ma i giornalisti continuavano a restare affezionati ai notiziari radio della Bbc World Service. Si potevano ascoltare ovunque: sulle montagne dell'Afghanistan o sotto un bombardamento a Beirut. Al transistor bastavano quattro pile.
“Da ieri sera colpi di arma da fuoco ed esplosioni si sentono ininterrottamente per le strade”, continuava la corrispondente della Bbc da Kigali. Era il 6 aprile 1994, ormai 25 anni fa. I due presidenti uccisi erano dell'etnia Hutu, in Rwanda la grande maggioranza rispetto ai Tutsi. Stava iniziando il più orrendo massacro etnico della storia contemporanea, dopo l'Olocausto. Ma la stampa internazionale era a Johannesburg a seguire un miracolo africano: il 26 ci sarebbero state le prime elezioni democratiche e multietniche, stava nascendo la “Rainbow Nation” di Nelson Mandela.
In un certo senso noi giornalisti laggiù, a Johannesburg, ci rifiutammo di credere che in Africa potesse accadere qualcosa di orribilmente tribale, mentre Madiba smontava l’apartheid senza bagni di sangue. Anche la diplomazia internazionale si trovò spiazzata. Libero dalle pressioni mediatiche che avrebbero svegliato le coscienze, e grazie al torpore dell'Onu e dei governi del mondo, il Rwanda ebbe il tempo necessario per compiere il suo genocidio. Forse sapendo di essere prima o poi interrotto, il Paese sprofondò nell’inferno con grande celerità: 800mila morti in soli cento giorni. Non furono usati l’aviazione, l'artiglieria, gas né armi chimiche. Bastarono fucili, bombe a mano e soprattutto bastoni e machete.
I carnefici erano gli Hutu e le vittime i Tutsi. I responsabili morali le vecchie potenze coloniali belga e francese: avevano messo al potere la minoranza Tutsi, non avevano fatto nulla per l’integrazione etnica e sociale con gli Hutu, e anche con la fine (teorica) del potere coloniale, avevano continuato a mestare sulle differenze tribali. In quell’aprile di 25 anni fa la manodopera del massacro furono i ragazzi dell'Interahamwe, la milizia giovanile dell'Mrdn, il partito Hutu. Ma morirono anche migliaia di hutu: uccisi dalla loro stessa etnia perché ostili al genocidio, e dall’Rpf, il partito Tutsi che si era riorganizzato in Uganda che da lì era partito alla riconquista del Rwanda. Cento giorni dopo l'aereo precipitato, Paul Kagame, il capo dell'Rpf aveva preso Kigali.
Il massacro finì ma non del tutto. Ci furono le vendette; furono organizzati i gacaca, le corti comunitarie simili al modello sudafricano della Commissione per la verità e la giustizia. Ma dal punto di vista della riconciliazione nazionale non ebbero lo stesso successo. Migliaia di Hutu morirono in carcere in attesa del processo. Altri due milioni fuggirono nel Congo che allora si chiamava Zaire: al genocidio seguì una gigantesca crisi umanitaria. I Tutsi inseguirono il nemico, destabilizzando il Congo e l’intera regione.
Durante i cento giorni, a Kigali morì un abitante su dieci. Le acque del lago Vittoria rimasero inquinate per anni, a causa dei morti che vi galleggiavano. Se oggi andate in Rwanda, ritroverete il languido Paese rurale delle “mille colline”. Paul Kagame ne ha però cambiato il profilo economico, trasformandolo nel Paese forse più tecnologico d'Africa, sicuramente della regione dei Grandi Laghi. È vietato parlare di etnie e il genocidio è costantemente ricordato perché non se ne ripeta un altro. Ma Kagame è anche un autocrate e a volte qualche oppositore muore. Ma l’etnia non c'entra.
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