ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùIl dibattito

Salone del Libro, pro e contro la protesta e quando supera il limite e diventa censura

di Carlo Melzi d'Eril – Giulio Enea Vigevani con la replica di Michele Boldrin

Salone Libro Torino, contestata la ministra Roccella

6' di lettura

Nell'ambito delle moltissime iniziative promosse dal Salone del Libro, una ha fatto molto “rumore”, sia per quello che è accaduto a Torino, sia per i commenti che ha suscitato. Ci riferiamo ovviamente alla presentazione del libro Una famiglia radicale a firma di Eugenia Roccella, già attiva militante radicale e oggi ministro per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, nota per le proprie posizioni antiabortiste («l'aborto è un diritto delle donne? Purtroppo sì»).

Stando alle cronache, un gruppo di attivisti ha protestato a lungo e rumorosamente, tanto da impedire lo svolgimento dell'incontro. C'è stato un tentativo di coinvolgere i contestatori nel dibattito, che tuttavia non è riuscito, nonostante l'intervento del direttore dal Salone, lo scrittore Nicola Lagioia. L'opposizione è durata finché l'evento non è stato a quel punto annullato. Contestazioni di questo tipo, moleste ma comunque non violente, sono frequenti nelle democrazie, specie nei confronti di chi detiene il potere. E chi le subisce tende solitamente a sdrammatizzare.

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Salone libro, Marrone su contestazione Roccella: "Nuova direzione sia più rispettosa"

Stupiscono le reazioni, non la protesta

Il “caso Roccella” ha provocato, invece, reazioni particolarmente accese. Il Presidente del Consiglio li ha definiti «fatti inaccettabili e fuori da ogni logica democratica». Secondo il presidente del Senato «ci troviamo di fronte all'ennesimo atto antidemocratico». Il capogruppo, sempre al Senato, di Forza Italia, lo ha definito «un episodio di squadrismo». Il ministro della cultura ha parlato di «inaccettabile e gravissimo atto di intolleranza». Infine, una deputata di FdI, presente al salone, dopo avere gridato al direttore del Salone di vergognarsi per avere definito la protesta pacifica, ha dichiarato che faranno il rullo di tamburi quando quest'ultimo, come già deciso, se ne andrà.

Ora, quello che davvero stupisce, se si conosce un po’ di storia della contrapposizione politica in questo Paese e si ha qualche coordinata di quel che dovrebbe essere una moderna democrazia liberale, non è la protesta, ma sono appunto le reazioni, soprattutto perché provengono dalle più alte cariche istituzionali. E lo stupore deriva dal dover constatare che proprio i nostri rappresentanti hanno una visione molto personale dell'architettura dei diritti di libertà, una visione che non trova corrispondenza nella nostra Costituzione.

Polemica sui diritti al Salone del Libro di Torino

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Il potere deve sopportare il dissenso

Siamo tutti d'accordo che sarebbe più educato e preferibile dedicarsi a piacevoli conversari e, anche quando non si è perfettamente d’accordo, limitare il dissenso a pacate obiezioni. E forse in tali consessi anche noi stessi ci sentiremmo più a nostro agio.

Tuttavia, è altrettanto ovvio ed evidente che appartiene alla fisiologia della vita repubblicana la protesta dei cittadini nei confronti del potere e che tale protesta sia particolarmente accesa. Attenzione, perché qui i particolari, come spesso succede, sono tutto: stiamo parlando di un membro dell'esecutivo, che presenta un proprio libro, nel quale tratta di argomenti di scottante interesse pubblico, nell'ambito di una manifestazione culturale certo importante, ma non l'unica. Dunque, anzitutto i componenti del governo, incarnando il potere, devono sopportare una maggiore carica di dissenso nei propri confronti, fino a quello frontale e radicale dell'impedire la parola.

I ministri, come tutte le figure pubbliche, hanno a disposizione una tale quantità di palcoscenici per esprimere le proprie idee che se in un'occasione viene loro impedito farlo poiché la protesta assume forme, sempre pacifiche, ma tali da non permettere la discussione, ciò non deve scandalizzare né tantomeno far gridare all’attentato alla democrazia.

Esempio di vita democratica

In altri termini: se un ministro in una precisa circostanza non riesce a parlare a causa di forti contestazioni, non si tratta di censura o di una ferita alla libertà di espressione sua o della sua parte politica. Da un lato il potere deve poter essere contestato anche ferocemente, purché in modo pacifico, dall'altro, in concreto, un singolo episodio non determina nessuna vera limitazione alla possibilità di esprimersi né del ministro né della sua parte politica.

Per questo i richiami a regimi del passato sono del tutto fuori luogo: in quei casi si esercitava o la violenza fisica da parte di bande organizzate (peraltro poi giunte al potere), oppure una ampia e opprimente censura organizzata dal potere stesso, mediante una legislazione liberticida. E lascia sorpresi anche l’agitazione (e il vittimismo) dei compagni di coalizione del ministro. Quella di cui è stata protagonista è proprio la vita democratica e ci sarebbe più da preoccuparsi se viceversa simili manifestazioni di dissenso fossero assenti, per conformismo o per paura delle conseguenze.

La replica di Michele Boldrin: il dibattito, non la censura, è l’essenza della liberal-democrazia

L'analisi dei fatti accaduti al Salone del Libro di Torino, che Carlo Melzi e Giulio Vigevani hanno offerto ieri su queste colonne, sostiene tre tesi che, fatte due premesse, vorrei contestare.Da mezzo secolo mi oppongo alle tesi sostenute da Eugenia Roccella ma questo non dovrebbe essere rilevante. Per quale ragione, allora, lo faccio notare?

Perché nell'incipit dell'articolo di Melzi e Vigevani le opinioni antiabortiste della Roccella vengono invece rilevate. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto nell'articolo, contestazioni di questo tipo non sono frequenti nelle democrazie e, nei rari casi in cui succedano, non vengono minimizzate, bensì l'opposto. Basta una semplice ricerca su Google per averne conferma.

Alle reazioni di condanna, quindi, unisco la mia: la protesta e il dissenso non equivalgono a organizzare una massiccia e antagonista presenza in un atto pubblico per impedire che un discorso venga pronunciato. Che questo sia accaduto è provato non solo dal comportamento dei censori, evidente nel video, ma anche dal rifiuto di accettare il dibattito loro offerto.

Il pubblico dibattito, non la censura violenta di opinioni non condivise, costituisce il metodo attraverso cui le liberal-democrazie gestiscono il dissenso. Il potere deve accettare e sopportare il dissenso? Ma certamente: lo pratico, come tanti altri, ogni giorno tutti i giorni.

Il dissenso deve consistere solo di tranquille discettazioni accademiche? Assolutamente no, esso comporta manifestazioni, grida, scritte apparentemente ingiuriose, paragoni e metafore ardite e financo argomenti insensati come molti di quelli che vediamo circolare sui media italiani quotidianamente. Ma in nessuna parte della Costituzione Italiana (o nei principi storici della liberal-democrazia) ho trovato scritto che dissentire dal potere include fra i propri metodi “quello frontale e radicale dell'impedire la parola”. Asserirlo non solo conferma che l'obiettivo della protesta non era manifestare dissenso ma impedire l'esercizio della libertà d'espressione ma giustifica tale censura sulla base del fatto che la ministra, in quanto ministra, avrebbe altri luoghi e opportunità dove potersi esprimere.

Ignoriamo per il momento il fatto che, essendo stata liberamente invitata da terzi, impedirle di parlare ha violato non solo la sua libertà di espressione ma anche degli organizzatori che avevano, invitandola, compiuto una loro libera scelta. Chiediamoci, seguendo questa logica: forse che un magistrato o un giudice non hanno molteplici opportunità per esprimere le loro opinioni e non sono parte del potere? Non vale lo stesso per qualsiasi parlamentare o membro di un corpo elettivo? Gli scrittori, i professori universitari o chiunque per professione parli o scriva in pubblico quotidianamente – come fanno i giornalisti sui più diversi media – non hanno forse enormi possibilità di esprimersi e non lo fanno forse da posizioni di potere? Non sono forse 3+1 i poteri riconosciuti persino dalla vulgata popolare, oltre a quello economico? Davvero pensiamo che, per dire, sia legittimo impedire agli editori di giornali di parlare in pubblico perché, tanto, hanno sempre le testate di loro proprietà dove scrivere?

Questo argomento suggerisce sia costituzionalmente legittimo compilare una classifica dei cittadini secondo il loro “potere” e le “opportunità [di cui godono] di esprimersi in pubblico”. Tale classifica andrebbe poi utilizzata per valutare a quali cittadini potremmo impedire – con manifestazioni urlanti – di esprimersi in pubblico quando un numero sufficiente di persone dissenta dalle loro opinioni.

In questa particolare classifica (compilata da chi?) il Presidente della Repubblica occuperebbe certamente un posto di vertice. Vogliamo argomentare che gruppi di persone che impediscano a Sergio Mattarella di parlare in pubblico starebbero facendo esercizio di democrazia? Perché, come è ovvio sia, egli esprime spesso opinioni con cui una buona fetta della cittadinanza dissente. Dove si trova, nella nostra o in altre costituzioni democratiche, tale diritto?

Il dissenso verso le opinioni del potere e, soprattutto, il dibattito aperto e pubblico fra chi detiene una qualsiasi forma di potere – politico, economico, mediatico, giudiziario, legislativo e sociale in genere – costituisce la linfa vitale di un sistema liberal-democratico.

Ma il pubblico dibattito si fonda sulla libera e compiuta espressione delle opinioni verso le quali si esprime poi dissenso. Dissenso forte e financo oltraggioso o assurdo ma sempre dopo che l'opinione altrui sia stata liberamente espressa. Impedire che venga espressa l'opinione con cui si dissente – con metodi che di fatto violano l'altrui libera espressione – rende il dibattito impossibile per definizione. Quando si sceglie di rendere impossibile il pubblico dibattito si spiana la strada, intenzionalmente o meno fa poca differenza, a un altro metodo di risoluzione dei conflitti sociali e delle differenze d'opinione. Quello dell'imposizione autoritaria dell'opinione della maggioranza e, a volte, persino di una minoranza più organizzata delle altre. Il movimento fascista fece esattamente questo e questo condusse alla negazione della liberal-democrazia che, appunto e non per caso, non prevede impedire l'espressione della libertà di parola fra le forme del suo esercizio.


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