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Salonicco, capitale di uno struggente senso d’eterno

Un passato glorioso e un presente sfidante, tracce di antichi re, chiese, rebétiko e hammam: qui storia e arte si incontrano

di Maria Luisa Colledani

5' di lettura

I peschi in fiore e un’auto che va, tagliando un tappeto rosa di luce e sole, sono solo il primo regalo della Macedonia, «la terra di Macedon, figlio di Zeus e Thyia, figlia di Deucalione», secondo la descrizione di Esiodo. Salonicco (Thessaloníki, traslitterando il nome greco), la seconda città della Grecia, è alle spalle, la pianura si allunga verso ovest, verso una meta antica e moderna insieme: Vergina. Qui, l’antica Aigái, metropoli regale dei Macedoni, fu casa di Filippo II, del figlio Alessandro Magno e della dinastia dei Temenidi. Qui, nel 1977, l’archeologo Manólis Andrónikos scoprì una serie di tombe all’interno di un tumulus del diametro di oltre cento metri. Sono le sepolture dei re macedoni, fra le quali quella di Filippo (382-336 a.C.), il re che inventò la falange e che sconfisse gli eserciti di Atene e Tebe. Dal 336 a.C. a noi è un tuffo: la collina è il museo delle tombe regali, è un labirinto buio che si snoda sotto terra.

In viaggio da Salonicco a Vergina

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L’oro dei Macedoni

Nelle teche brillano – è un abbaglio di ricchezza e oreficeria – corredi funerali tutti d’oro, corone vaporose di foglie di quercia e ghiande o di mirto, scudi d’oro e avorio, un’armatura dorata quasi integra, una faretra con il volto del dio Ares, il larnax dorato che conteneva le ossa del sovrano, calici e bacili. E non bastasse questo mondo opulento che si mostra ai nostri occhi impastati di buio si arriva davanti alla tomba di Filippo, un tempio in miniatura con enormi porte in marmo e con affreschi a soggetto mitologico lungo il frontone dorico che, proprio in questi mesi, sono oggetto di studio nelle loro componenti materiali da parte di un gruppo di ricercatori dell’Università di Salonicco e di Catania.

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Siamo davanti alla gloria che fu: qui, si entra nella morte a occhi aperti, e storditi di bellezza. D’altra parte, già gli antichi avevano raccontato quello sfarzo: «La magnificenza del funerale che Alessandro, secondo la tradizione, allestì per il padre, andò oltre ogni aspettativa», scriveva Diodoro Siculo (XVII, 2,1). Per poi perdersi nell’immenso parco archeologico della capitale macedone. I resti del palazzo del re Antigono Gonata (III secolo a.C.), le rovine urbane, il teatro, una necropoli di oltre un chilometro quadrato, con tumuli databili fra l’XI e il II secolo a.C., i templi della Madre Terra e di Eukleia, le mura sono rappresentazione concreta del potere di questo regno che, con Alessandro Magno, sarebbe arrivato fino all’Indo, fino ai confini del mondo.

La meraviglia è una cornucopia infinita di gioielli e di edifici e, da alcuni mesi, si è arricchita ancora con l’apertura del nuovo, splendido museo di Aigái, ideato come una porta di accesso al mondo dei macedoni. La costruzione, modernissima, tutta a vetri, cemento e travi in acciaio, dialoga con l’antico e racconta la vita di quel regno forgiato dalla storia e dalla forza con un allestimento avvolgente. Dalle picche della prima sala, alla cascata di unguentari e di spille per raccontare il lusso delle donne, dagli oggetti della vita quotidiana (chiavi di templi e case, chiodi di mobili, tegole) ai tesori funerari, carichi di simboli e finezza artigianale.

Salonicco, la storia che passò

Dopo questo bagno di antico, non resta che fermarsi a Salonicco, ricca e cosmopolita, battezzata da Filippo II “Thessaloníki” per ricordare la vittoria sui Tessali. Fondata nel 315 a.C. dal re macedone Cassandro, conquistata nel 146 a.C. dai Romani, la città ha mille volti, come un caleidoscopio di storie lasciate dai popoli che l’hanno abitata: traci, macedoni, romani, bizantini, veneziani (per pochissimo, 1423-1430), ebrei, ottomani. Nonostante un grave incendio che nel 1917 la distrusse, Salonicco profuma di Balcani e Oriente, di mare e montagna. Gli appassionati di dolci sono i benvenuti: le pasticcerie riempiono le strade con specialità dai sapori “asiatici” quali l’halvá di ceci e uvetta, il ryzógalo (budino di riso) alla cannella o la famosa mpougátsa, una specie di maritozzo alla crema.

La visita può iniziare da Áno Póli, sulla sommità della collina che domina Salonicco da dove il tramonto sul mare è ben più di uno spettacolo. Le vie strette sono un susseguirsi di sachnisí, le case ottomane con aggetto per ampliare la superficie, sembra più Istanbul che Salonicco, e vale la pena fermarsi all’Heptapyrgion, le sette torri di una ex fortezza bizantina diventata prigione con gli ottomani, o al Monastero di Vlatádon, sorto dove san Paolo predicava.

Dalla collina si scende verso il mare: lungo la via Egnatía, millenaria strada di comunicazione est-ovest, dal basso Adriatico all’Egeo settentrionale, c’è il profumo d’incenso delle chiese ortodosse e le linee degli hammam turchi della metà del XV secolo, si incontrano la Rotonda di Galerio, che l’imperatore fece costruire come suo mausoleo, l’arco dello stesso sovrano e il suo palazzo. Nel cuore della città, ci si può fermare al bar Enochés (significa “sensi di colpa”), un appartamento arredato con oggetti d’antiquariato e arte moderna, per un rakomelo e scambiare due parole con Konstantina Gerolymou, 50 anni, archeologa: «Le elezioni nazionali del 21 maggio saranno un banco di prova per Nea Democratía e il premier Mitsotakis. In questi anni tante le promesse, ma la povertà è diffusa, i giovani non riescono a costruirsi un futuro e le spinte populiste dilagano anche in Grecia».

Cullati dal rebétiko

Ogni angolo è un pezzo di passato, come i resti dell’Agorà Romana, che digrada verso Piazza Aristotele, il cuore della città, e trampolino di lancio per gli occhi verso la vetta del Monte Olimpo che sta là di fronte a vegliare sul mare e sul mito. Sul lungomare, si affaccia il quartiere di Ladadika, localini e profusione di giovani, quelli che affollano il Politecnico e le università. Da non perdere il Mercato Modiano e il Museo ebraico: furono deportati verso i campi 50mila ebrei, attivi nella tintura della seta e nella tessitura, e nel 1946 in città se ne contavano 1.950, di cui 800 salvi perché entrati nella resistenza.

La Torre Bianca veglia sul lungomare, così come la statua di Alessandro Magno e gli Ombrelli di Giorgos Zongolópoulos ma, prima di sera, fermatevi in qualche taverna, come Prighipéssa o Roúga, dove si accende il rebetiko, il fado, il blues dei Greci, nato dopo il 1922 quando ci fu uno scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia: 1,2 milioni di ellenofoni cristiani, nati e cresciuti a Smirne, Istanbul e in Anatolia, furono obbligati dal Trattato di Losanna, a emigrare nell’Ellade, e mezzo milione di turcofoni musulmani, nati e vissuti fra Creta e Salonicco, facevano lo stesso viaggio verso Oriente. Lo struggimento divenne musica, e il rebétiko è la marea che sale, e il cuore fatica a tenerla a bada.

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