Salvini e Open Arms: c’è un confine al dovere di soccorso in mare?
No della Giunta del Senato sul via libera al processo contro l’ex ministro Matteo Salvini sul divieto di sbarco dell’agosto scorso alla nave Ong Open Arms
di Guido Camera
4' di lettura
Dopo il rinvio dovuto all’emergenza coronavirus, la giunta delle elezioni e delle immunità del Senato si è espressa negativamente sul processo contro l’ex ministro degli Interni, Matteo Salvini, per il caso Open Arms, dal nome della nave della Ong cui l’allora titolare del Viminale negò per aluni giorni, nell’agosto 2019, l’approdo a Lampedusa e lo sbarco di 107 persone salvate in acque libiche e internazionali.
È entrato quindi nel vivo il secondo round tra le Ong e l’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, sui salvataggi in mare di migranti; una partita che - in diritto - si gioca tutta sul concetto di «dovere di soccorso» e sull’attracco in un «porto sicuro».
La Giunta doveva valutare se l’ex ministro abbia agito - come sostiene - per un preminente interesse pubblico di Governo, oppure se andrà processato per sequestro di persona e omissione di atti di ufficio, commessi abusando del ruolo di ministro degli Interni, come da richiesta del tribunale dei ministri di Palermo.
La decisione definitiva spetterà poi all’Aula del Senato, investita dalla richiesta di autorizzazione a procedere: ma già dal voto di domani si potrà intuire la decisione finale.
La vicenda Open Arms segue il primo round, quello della nave militare Gregoretti, che nello stesso mese di agosto 2019 ha salvato in mare 131 migranti, non autorizzati allo sbarco da Salvini e rimasti chiusi sulla nave in porto a Siracusa per quattro giorni, fino al manifestarsi della disponibilità alla redistribuzione di altri Stati europei. In questo caso l'autorizzazione a procedere c’è già e il 3 ottobre si aprirà a Catania l'udienza preliminare.
Le due vicende hanno delle differenze sostanziali: quella attuale riguarda un’imbarcazione privata destinataria di un divieto di ingresso in forza del decreto sicurezza bis, la seconda una nave militare - la Gregoretti - non soggetta al decreto. Ma sotto il profilo giuridico rivestirà, come detto, un ruolo essenziale la definizione del dovere di soccorso dei migranti in mare, che opera allo stesso modo sia per il comandante della nave da guerra, sia per il capitano dell’imbarcazione della nave privata (Ong).
L’obbligo di soccorso
Su questo punto, un’importante indicazione è stata data dalla Cassazione, con la sentenza 6626/2020, pubblicata il 20 febbraio scorso, dopo la concessione dell’autorizzazione a procedere sul caso Gregoretti. La decisione riguarda un terzo episodio dello scontro Salvini-Ong, forse il più famoso: è la vicenda di Carola Rackete, comandante dell’imbarcazione Sea Watch 3 - dell’omonima Ong - arrestata per resistenza a pubblico ufficiale e violenza contro nave da guerra. La Sea Watch 3 era entrata in porto lo scorso 23 giugno a Lampedusa per sbarcare 42 migranti salvati in acque libiche, contravvenendo a un decreto interministeriale emesso in base al decreto sicurezza bis, e di fatto “speronando” una motovedetta della Guardia di Finanza che aveva provato a impedire l’attracco.
La Corte, richiamando diverse Convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia – che nella gerarchia delle fonti del diritto hanno un ruolo superiore alle norme nazionali, tra cui rientrano quelle del decreto sicurezza bis - ha dato una definizione molto estesa del dovere di soccorso in mare, stabilendo che questo è inderogabile e può dirsi adempiuto solo con lo sbarco dei migranti, che deve avvenire «nel più breve tempo ragionevolmente possibile» in un luogo ove possano chiedere protezione internazionale, ovvero un’operazione che secondo la Cassazione «non può certo essere effettuata sulla nave». A sostegno viene chiamata la risoluzione del Consiglio di Europa 1821 del 2011, che stabilisce che «luogo sicuro» è quello dove viene garantita la protezione fisica delle persone ma anche «il rispetto dei loro diritti fondamentali». L’arresto della Rackete è stato perciò dichiarato illegittimo, perché solo attraccando in banchina – anche contro il divieto di ingresso italiano – ha adempiuto fino in fondo al dovere di soccorso imposto dalla normativa sovranazionale applicabile. Questo a prescindere, conclude la Cassazione, dal fatto che la motovedetta della Guardia di Finanza non possa essere qualificata come “nave da guerra”, perché al comando c’era un sottufficiale e non un ufficiale: l’adempimento del dovere di soccorso avrebbe in ogni caso reso illegittimo l’arresto nonostante la collisione.
Si tratta di una pronuncia che mette al centro il dovere di soccorso del migrante, di fatto riducendo molto la linea che distingue i rifugiati dai migranti economici, per i quali la protezione internazionale non opera, stabilendo che prima di tutto bisogna consentire loro lo sbarco, dato che la valutazione dello status richiede tempo, e non può certo essere fatta in mare.
La protezione dei confini
Il focus del processo contro Salvini, per la vicenda Gregoretti, sarà la qualificazione giuridica della decisione dell’allora ministro di non autorizzare lo sbarco fino a quando non ha ricevuto la manifestazione di disponibilità di altri Stati europei alla distribuzione dei migranti.
Se verrà dimostrato che è stato un atto politico rientrante nella funzione e nel programma di governo, i margini di sindacato del giudice penale saranno stretti, nonostante l’autorizzazione a procedere del Senato. Bisognerà però dimostrare che il ritardo dell’autorizzazione allo sbarco è stato originato da una situazione di pericolo per la sicurezza dello Stato e dei suoi confini, e che questa situazione di pericolo è stata prevalente, nel bilanciamento dei diritti in conflitto, sul dovere di soccorso dei migranti e sulla tutela della loro dignità e libertà personale nel periodo di permanenza sulla Gregoretti: una nave solitamente adibita alla vigilanza delle attività di pesca e inadeguata per ospitare tutti quei migranti, circa 30 dei quali con malattie infettive, che stazionavano in coperta con temperature vicine a 35 gradi. E la giurisprudenza è severa nello stabilire i confini del sequestro di persona: basta che la vittima - per un periodo anche breve - versi in una condizione di impossibilità relativa, e non assoluta, di autoliberazione, che va giudicata tenendo conto delle sue difficoltà, in ragione delle condizioni personali, a superare gli ostacoli, fisici e psicologici, che si oppongono al recupero della libertà (tra le tante, Cassazione 23660/2004).
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