Sanremo, vincono i Maneskin. Comunque sia andata non è stato un successo
Secondi Fedez-Michielin, terzo Ermal Meta. Premio della critica a Willie Peyote, quello della sala stampa a Colapesce e Dimartino. Achille Lauro shock
di Francesco Prisco
6' di lettura
La serata finale di Sanremo 2021 che ha incoronato vincitori i Maneskin ha raccolto su Rai 1 13 milioni 203mila telespettatori pari al 49,9% di share nella prima parte, 7 milioni 730mila con il 62,5% nella seconda. In media, la serata finale ha ottenuto 10 milioni 715 mila spettatori con il 53,5% di share. In valori assoluti gli ascolti recuperano terreno, avvicinandosi alla media della serata finale dell’anno scorso (11 milioni 477mila spettatori, ma con uno share più alto, il 60,6%) e ponendosi in linea con l’ultima serata del festival 2019 (10 milioni 622 mila con il 56,5%). Nel 2020 la prima parte dell’ultima serata aveva ottenuto 13 milioni 638 mila telespettatori con il 56,8% di share nella prima parte e 8 milioni 969 mila con il 68,8% nella seconda. Il Festival 2021 raccoglie 38 milioni di pubblicità, un milione in più rispetto all’anno scorso.
Vincono i Maneskin, davanti a Fedez-Michielin e Ermal Meta
Donne, ha trionfato l’«hardrocchino»: vincono il 71esimo Festival della canzone italiana di Sanremo i Maneskin con Zitti e Buoni, un derivato della tradizione hard & heavy anni Settanta. Rappresenteranno l’Italia all’Eurovision Song Contest di Rotterdam 2021. Dietro di loro l’accoppiata Fedez-Francesca Michielin con Chiamami per nome e Ermal Meta con Un milione di cose da dirti. Il televoto ha ribaltato le gerarchie emerse dopo le prime quattro serate che vedevano saldamente in prima posizione Meta, facendo trionfare la band affermatasi all’edizione 2017 di X Factor. Il secondo posto, invece, è in qualche modo figlio della campagna social di Chiara Ferragni che, nelle ore della finale, ha esortato i suoi follower a votare per il marito.
La critica premia Willie Peyote e Colapesce e Dimartino
In classifica generale troviamo, invece, dal quarto al 26esimo posto nell’ordine: Colapesce e Dimartino, Irama, Willie Peyote, Annalisa, Madame, Orietta Berti, Arisa, La Rappresentante di Lista, Extraliscio e Davide Toffolo, Lo Stato Sociale, Noemi, Malika Ayane, Fulminacci, Max Gazzè, Fasma, Gaia, Coma Cose, Ghemon, Francesco Renga, Gio Evan, Bugo, Aiello, Random. A completare il medagliere dell’edizione 2021, il premio della critica «Mia Martini» assegnato dalla sala stampa che è andato a Willie Peyote, quello «Lucio Dalla» della sala media e tv a Colapesce e Dimartino. Il premio «Sergio Bardotti» per il miglior testo va a Madame con la canzone Voce. Premio «Gialcarlo Bigazzi» per la miglior composizione musicale va a Ermal Meta.
Comunque sia andata, non è stato un successo
Che dire dell’edizione che ci lasciamo alle spalle? Prima ci hanno detto che questo Festival andava fatto a tutti i costi, perché «lo voleva la gente». Poi, di fronte a dati di ascolto non esattamente in target con le aspettative, la difesa è stata: «Che volete? Il mondo è cambiato: c’è il coronavirus, la gente ha il problema di mettere il piatto a tavola, è già un miracolo che si siano raggiunti questi livelli di audience». Il 71esimo Sanremo, secondo di Amadeus e primo (e ultimo, si spera) dell’era Covid, aveva fatto proprio il famoso slogan dell’angelico Chiambretti: «Comunque vada, sarà un successo». Arrivati alla fine, per quanto ci si sforzi di vedere il proverbiale bicchiere mezzo pieno, onestà intellettuale impone di dire che non è esattamente così che sono andate le cose. Almeno sul fronte dello spettacolo messo in scena e dell’audience che ha raccolto.
Si è inceppato lo schema «Amadeus passa a Fiorello»
Non è che qui si voglia, a tutti i costi, fare il confronto con le inarrivabili performance del 2020, quando là fuori era tutto un altro mondo. Non ci potevano essere ospiti, meno che mai internazionali (a quelli, a dire il vero, la Rai ha rinunciato da qualche decade, facendo di necessità virtù). Quelli che abbiamo visto, messi insieme, facevano l’effetto di un italico Buena Vista Social Club. Che ovviamente non si può criticare, perché come fai a criticare Ornella Vanoni e Loredana Berté con la storia che hanno dietro le spalle. Il lavoro di costruzione dell’ormai famigerato protocollo sanitario ha in tutta evidenza sottratto risorse e impegno dall’allestimento dello show. Spiace sottolineare che si è visto eccome. Il format «Amadeus - presentatore/Fiorello - disturbatore» che aveva determinato il successo di Sanremo 2020 non è bastato. Si è inceppato lo schema secondo cui Amadeus fa «una vita da mediano», poi passa la palla al numero dieci (Fiorello) che qualche cosa s’inventerà. Si è inceppato e sono emerse tutte le falle strutturali del programma.
Achille Lauro vittima di sé stesso
La platea vuota dell’Ariston, indubbiamente un contesto diverso rispetto allo show cui eravamo abituati, c’entra fino a un certo punto. Perché, in somma onestà, tocca dire che questo è stato un festival scritto male: poco ispirati i siparietti comici, costruiti discutibilmente i momenti di riflessione. Con Fiorello che «bullizza» affettuosamente Amadeus e non per la prima volta. Fiorello che si traveste e non per la prima volta. Con Fiorello che sfotte il politically correct e non per la prima volta. Fiorello e Amadeus in parrucca, mamma mia che risate. Il numero cheap delle telefonate degli amici vip. Poi Fiorello che imita Achille Lauro che, già di suo, è l’imitazione coatta di mille altre cose già viste in giro per la storia del rock. Pure dei «quadri» del trapper, parliamone. Qualche illustre critico, un paio di anni fa, ha voluto dargli la patente di artista e va bene così: campa tanta gente, campi pure lui. Ma pretendere che il simpatico ragazzo possa reggere un’infrastruttura spettacolare che deve durare cinque giorni è veramente provare a spremere il sangue dalle pietre. Come niente, va a finire che il ragazzo si monta la testa e si auto-celebra con una rosa conficcata nel petto, con rivoli di sangue che scorrono ovunque, mentre si sente la voce degli opinionisti che lo hanno criticato.
La riduzione a macchietta del tutto
E invece carta bianca a lui, a Elodie, a Mahmood e a Laura Pausini, tanto più che teneva appuntata sul petto la spilla di fresca vincitrice del Golden Globe, quindi meritava un’enfasi che manco Madonna al Festival del ’95. Poi ti arriva sul palco un artista assoluto come Enzo Avitabile, per il centenario della nascita di Renato Carosone, e anziché lasciargli campo libero gli costruisci attorno un siparietto comico con Fiorello e Amadeus a fare il trenino inturbantati. L’arte ridotta a macchietta. Pure dell’Ibrahimovic «valletto» che gioca a fare il «boss», parliamone. L’outfit luxury pacchiano, la musica balcanica che ne sottolinea i movimenti, il piglio da mammasantissima dell’area di rigore sono, anche stavolta, riduzione a macchietta. La cosa più divertente della sua partecipazione a Sanremo è stata il fuoriprogramma del passaggio in motocicletta da uno sconosciuto che gli ha consentito di arrivare all’Ariston giovedì sera, dopo un incidente che bloccava l’autostrada. Evidentemente non scritto dal team di autori che ha curato Sanremo.
Momenti di riflessione: è mancato il coraggio
Anche dei momenti di «riflessione», parliamone. Passi per la partecipazione di Alessia Bonari, l’infermiera simbolo della prima ondata di Covid, e Donato Grande, centravanti della Nazionale di calcio paraolimpico. Ma che cos’era il predicozzo autoreferenziale di Barbara Palombelli nella serata di venerdì, se non una lectio magistralis, completamente decontestualizzata da tutto il resto? Ci si è occupati del dramma dei lavoratori dello spettacolo che rischiano il posto di lavoro: sacrosanto. Ma all’una di notte. Mancava il coraggio per collocare in prima serata un messaggio così importante per la tenuta del settore? A che serviva esattamente il dialogo Amadeus-Giovanna Botteri che accostava L’anno che verrà e l’anno del Covid?
Buono il cast a trazione «indie»
Se c’è qualcosa che salviamo dell’Amadeus bis, è l’offerta musicale. Non tutta, ma quella che riguarda la cosiddetta «quota indie»: Colapesce e Dimartino, Willie Peyote, Coma Cose, Extraliscio e Davide Toffolo ci sono sembrate scommesse indovinate. È nelle annate di transizione, quando non sei obbligato a stravincere il campionato, che puoi concederti il lusso dell’esperimento, mettere in campo qualche giovane in più. Certo, poi nessuno di loro è salito sul podio: sembra tornato il potere dei talent. Certo, esistesse un Antitrust del Festival, forse si interrogherebbe sulle ragioni per cui Dardust firma cinque brani in gara e non li firma tutti con lo stesso nome, ma tre come Dardust e due come Dario Faini. E in finale arriva come ospite. I dati sul turnover generazionale del pubblico del festival sembrano premiare le scelte di Amadeus. Certo, il prezzo da pagare è stato l’allargamento a 26 concorrenti della categoria Big, l’ulteriore ipertrofia delle serate che, nella migliore delle ipotesi, finivano all’una e mezza. Recuperare qualche ora di sonno, visti i tempi che corrono, sarebbe stato un grandissimo regalo fatto agli italiani. A costo di qualche spazio pubblicitario in meno.
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