Santo Versace: «Se Gianni non fosse stato ucciso avremmo creato un polo internazionale del lusso»
Con Santo Versace tutto è allo stesso tempo sincopato e rilassato, contratto e trattenuto, velocissimo e meditato. Ogni cosa ha una doppia dimensione: il passato e il presente sono fusi in uno spazio ibridato e nitido, pacato e violento
di Paolo Bricco
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«I più grandi dolori? La morte di mio fratello e la mancata fusione fra Versace e Gucci. L’uccisione di Gianni ha fatto scomparire una parte di me e ha chiuso traumaticamente un’epoca. Inoltre, ha impedito la costituzione di un polo del lusso che avrebbe cambiato la moda internazionale. Quell’operazione avrebbe mutato il destino dell’Italia. Sarebbero emersi nuovi assetti produttivi, finanziari e strategici per il nostro Paese. Ne sono sicuro.
Gianni mi diceva: “Santo, quanto ci siamo divertiti in questi primi venticinque anni? Non abbiamo fatto ancora nulla. Non sai quanto ci divertiremo nei prossimi venticinque”».
Santo parla di Gianni. Siamo da Nino, in Via Borgognona a Roma. «Con Gianni venivamo qui a mangiare. L’ultima volta ci riservarono la saletta a fianco», racconta. Gianni Versace non è soltanto l’icona che ha rivoluzionato il gusto e la società degli anni Ottanta e Novanta. È una specie di dio Pan che, arrivato dalla Magna Grecia con il suo flauto, è stato ovunque e, ancora adesso, con la sua presenza si trova ovunque. Nell’estetica di oggi. E qui, per caso o per destino, al nostro fianco. «Ma lei è Santo, il fratello di Gianni?», ci chiede con gentilezza e stupore una elegante signora americana seduta vicino a noi insieme alla nipote. E, poi, spiega a lui: «Io gestivo il vostro negozio di Los Angeles. Quando veniva a Hollywood, Elton John lo vestivo io».
Con Santo Versace tutto è allo stesso tempo sincopato e rilassato, contratto e trattenuto, velocissimo e meditato. Ogni cosa ha una doppia dimensione: il passato e il presente sono fusi in uno spazio ibridato e nitido, pacato e violento. «Il 15 luglio 1997 a Miami spararono a Gianni. Io ero a Roma a preparare la sfilata a Trinità dei Monti. A lungo ho rimosso quei minuti. Mi hanno poi raccontato che, quando mi dissero che Gianni era morto, io risposi “Non è possibile. Gianni è immortale”».
Quel colpo di pistola in Florida ha interrotto la vita di un ragazzo nato a Reggio Calabria, ha dissolto un pezzo di anima di un fratello e ha provocato una crepa nella storia industriale e civile dell’Italia. «Poco prima della morte di Gianni, c’era stato un pranzo al Savini di Milano. Avevamo trovato un accordo. Il progetto era stato suggerito dai banchieri di Morgan Stanley, Paola Giannotti de Ponti e Galeazzo Pecori Giraldi. Gucci, che era già quotata, avrebbe fatto un aumento di capitale che noi avremmo sottoscritto conferendo la nostra società. Tecnicamente, insieme, avremmo controllato il 60% del capitale del nuovo aggregato. La moda non sarebbe più stata la stessa. Gianni aveva 50 anni ed era all’apogeo. In Gucci Tom Ford, che in quel momento era lo stilista più brillante della nuova generazione, ne aveva 35. La loro azienda era condotta da Domenico De Sole. Dalla nostra parte, nel versante gestionale, c’ero io. Loro erano fortissimi negli accessori. Noi lo eravamo nei vestiti, sia da donna che da uomo. Una irripetibile combinazione di business e di persone».
Il cameriere ci porta i menu: «Vi andrebbe bene il nostro Chianti? Lo serviamo in caraffa», ci chiede. «Va benissimo», risponde Santo, che aggiunge: «Quando sono all’estero, in qualunque ristorante mi trovi, chiedo sempre di bere vino italiano. Amo molto i vini toscani».
Nella complessità delle cose, Santo favorisce il nostro colloquio adottando sempre un punto di vista razionale, mentre dipana il bozzolo che si è formato intorno al dolore della perdita violenta del fratello. Ha grande amore per lui. Ma non ha una visione epicizzante. E non è ossessionato dalla sua grandezza: «Siamo sempre stati complementari. Non ho mai avuto invidia per il suo genio». Proprio per questo inserisce la sua – la loro – storia in un ordito preciso e geometrico. «Kering non sarebbe esistita. Perché il gruppo della famiglia Pinault, che prima si chiamava Ppr e che nel 2013 avrebbe cambiato il suo nome in Kering, ha avuto un passaggio evolutivo fondamentale quando, nel 1999, ha assorbito in maniera definitiva Gucci. Versace e Gucci sarebbero stati un campione nazionale vero. Con forza finanziaria, capacità produttiva, solidità logistica. Saremmo arrivati ovunque», riflette Santo con dispiacere controllato, ma senza troppa nostalgia. E, così, quello sparo di 26 anni fa a Miami Beach illumina la traiettoria della successiva travagliata vicenda dell’impresa (fino all’acquisizione, nel 2018, da parte della società che possedeva già Michael Kors e Jimmy Choo, rinominata Capri Holdings) e soprattutto chiarisce una delle occasioni mancate della storia italiana. Suggerendo una risposta a perché la moda globale – la moda della globalizzazione, ma pure la moda che assorbe tutto e si trasforma da settore economico in linguaggio ovunque disseminato, in forma mentale corale e in pulsione degli individui – sia stata e sia, negli assetti di comando e nelle strutture strategiche, solo francese e non anche italiana.
In tavola viene servito a entrambi un agnello allo scottadito con le patate al forno. «Abbiamo fatto bene a scegliere questo ristorante. Era da tempo che non ci venivo. L’agnello è buonissimo», dice Santo. A colpire in Santo è la capacità di costruire un mondo insieme connesso e parallelo, autonomo e dipendente dal fratello. Il libro Fratelli – pubblicato da Rizzoli, in copertina una foto bellissima di loro due – è onesto e diretto. Nulla traspare né di antagonistico né di idolatrico rispetto a Gianni. Allo stesso modo, Santo ha costruito una esistenza piena dopo la sua scomparsa. Una esistenza che ha radici profonde, nella storia del Sud e dell’Italia: «La nostra famiglia è sempre stata socialista. Nostro nonno Giovanni Battista Olandese era un socialista anarchico. Fu mandato per 18 mesi al confino a Lipari per avere fischiato in pubblico il generale Roberto Morra, che nel 1894 aveva represso con la violenza il movimento dei Fasci siciliani. A Lipari Giovanni Battista conobbe Maria Bertè: si innamorarono, si sposarono ed ebbero nostra mamma Francesca. Nostro padre Antonino, che nel Secondo dopoguerra commerciava in carbone vegetale sia al dettaglio sia come grossista, ci invitava sempre a vivere con gli umili. Nostra madre, che nella sua attività di sarta aveva una grande forza e inventiva imprenditoriale, era una persona generosa. Io da giovane ero un socialista lombardiano, in una Calabria dominata da Giacomo Mancini. Il nostro socialismo è sempre stato più umano che ideologico, del cuore prima che della ragione».
Oltre all’agnello a scottadito, io assaggio dei fiori di zucca ripieni di acciughe. Santo, invece, prende un piatto di verdure. L’esistenza di Santo Versace è segnata dall’intrecciarsi del tempo. Il passato genera il presente e il futuro. Con una rapidità che acceca come il sole del Sud. Oggi Santo è sposato con Francesca, la cui famiglia appartiene alla borghesia di Reggio Calabria. La nonna della moglie, che si chiamava anche lei Francesca, era cliente della mamma di Santo e la madre, Cristina, era seguita da un giovane Gianni. «Nella mia ultima vita – racconta Santo con la devozione riservata dagli uomini più maturi alle donne più giovani e di eguale personalità e statura – devo tutto a lei. Ci siamo uniti con rito civile nel 2014. In estate ci sposeremo in chiesa. Abbiamo in comune non solo la vita privata, ma anche l’attività professionale nel cinema e l’impegno nel terzo settore».
Nel terzo settore ha costituito la Fondazione Santo Versace: «Noi sosteniamo direttamente i costi operativi della fondazione. L’obiettivo è di aiutare i più fragili, mettendo in rete e fornendo sostegno finanziario, con un modello leggero ma efficace, le tante iniziative che già esistono nel mondo del volontariato italiano, senza cui il Paese sarebbe da tempo imploso. Diamo il nostro supporto a Made in Carcere, che riabilita le persone recluse con il lavoro, alla Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante, al Piccolo Principe che si occupa di accogliere minori in condizioni di fragilità (nello specifico minori allontanati dalle famiglie che provengono da storie familiari dolorose, maltrattamenti, incuria e abusi), a don Aldo Buonaiuto che, nella comunità Papa Giovanni XXIII, sulle orme di don Oreste Benzi opera contro la tratta delle giovani immigrate e contro la prostituzione nelle strade».
La Reggio Calabria degli anni Settanta e la sua luce, la Milano degli anni Ottanta e il suo ritmo, la Miami Beach del 1997 con quello sparo. Fino alla Roma di oggi e al suo tepore pre-primaverile. Gli uomini e le donne. Il dolore e l’amore. La moda e il cinema. «Ho sottoscritto un aumento di capitale da sei milioni di euro nella Minerva Pictures. Ho il 30% della società. Mia moglie Francesca è nel consiglio di amministrazione. Io sono presidente. L’amministratore delegato della Minerva è Gianluca Curti. Sua madre era Leonora Ruffo, una delle protagoniste scelte da Federico Fellini per I vitelloni. Sono convinto della possibilità di fare bene. Stiamo girando una serie su Oriana Fallaci, con Miriam Leone interprete della giornalista e scrittrice».
Arrivano i caffè con cantuccini di Siena. In un cortocircuito del tempo, mi viene in mente il racconto di Santo e di Gianni che giocavano a pallone da bambini nelle strade di Reggio Calabria e «le macchine si fermavano, ci facevano finire l’azione e poi passavano». Con emozione ma senza languore, qui – oggi, a Roma, mentre ci alziamo per uscire – sento la voce di Santo prima fraseggiare e poi canticchiare il brano Ottocento di Fabrizio De André, dall’album Le nuvole: «Figlio bello audace, bronzo di Versace…». E l’effetto è struggente.
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