Saranno gli emergenti e l’Europa a pagare il conto della guerra
Le ricadute asimmetriche del conflitto
di Marco Onado
3' di lettura
Ci sono tre aspetti da tenere presente nel valutare le conseguenze economiche della guerra in Ucraina. Primo: la ripresa economica dopo la pandemia era già in attenuazione e soprattutto era minacciata da un’inflazione superiore alle attese: in molti Paesi la più alta degli ultimi 40 anni. Secondo: l’economia mondiale deve sopportare un ulteriore shock da offerta che, a differenza della pandemia, è essenzialmente asimmetrico; dunque le conseguenze per alcune aree (in primis, Europa e Paesi in via di sviluppo) saranno considerevolmente più gravi. Terzo: gli effetti economici sono come le onde sismiche che si propagano dall’epicentro e si irradiano nella comunità globale, agendo attraverso i rapporti commerciali e finanziari, spesso amplificando la perturbazione iniziale.
Tutto questo per dire che le previsioni di questi giorni, a cominciare da quelle recenti del Fondo monetario internazionale (che pure prevede una contrazione della crescita mondiale dal 6,1 al 3,6% e per l’area dell’euro dal 5,3 al 2,8%) vanno considerate come le uniche in questo momento possibili, cioè quelle che per forza di cose riguardano il primo anello della catena di conseguenze che la guerra scatenerà nel medio termine.
Il primo impatto sui mercati è stato ovviamente forte, ma non ha generato effetti sistemici. I corsi azionari si sono ridimensionati, gli spread per i debitori meno robusti si sono (ulteriormente) ampliati, soprattutto per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo, ma non ci sono state minacce di instabilità sistemica. Il Fondo avverte però che gli indicatori di incertezza si sono notevolmente innalzati e non a caso venerdì scorso le Borse americane hanno segnato la flessione più forte da marzo. E questo solo perché la Fed ha confermato gli aumenti dei tassi ormai inevitabili: forse non hanno torto gli analisti che sostengono che troppi investitori si stanno comportando come Wile E. Coyote che continua a correre nel vuoto perché non si è accorto che non ha più terra sotto i piedi.
C’è cioè il rischio concreto che gli effetti economici a medio termine non siano ancora stati adeguatamente apprezzati. È vero che la Russia rappresenta meno del 3% dell’economia mondiale, ma ha rapporti commerciali e finanziari molto stretti con alcuni Paesi, soprattutto europei, e rappresenta insieme all’Ucraina un importante esportatore di molti prodotti: non solo gas e petrolio, ma anche cereali e metalli fondamentali per varie produzioni industriali. Non è un rischio astratto: basti vedere il profondo contrasto in merito agli effetti di un embargo sulla fornitura di gas russo: la Bundesbank e gli imprenditori tedeschi stimano una caduta del prodotto lordo del 5%, mentre altri economisti e i politici sono molto meno pessimisti.
In base al sano principio di sperare per il meglio, ma prepararsi al peggio, il Fondo avverte che la probabilità di una flessione dell’attività produttiva più ampia del previsto è consistente; in questo caso, il riprezzamento del rischio potrebbe amplificare i numerosi elementi di fragilità accumulati dal sistema finanziario mondiale dopo la crisi del 2008 e accentuati dalla pandemia. Fra questi, l’eccesso di debiti e la debolezza di molti sistemi bancari, a cominciare da quelli europei. In effetti, il “semaforo” del rischio di instabilità segnala rosso fisso per molti settori e regioni, a cominciare dal debito pubblico che, dopo gli aumenti dovuti alla pandemia, potrebbe dare origine al circolo vizioso rischio sovrano, rischio bancario soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.
Anche gli effetti sulle banche, in particolare europee, sono fonte di incertezza. L’impatto immediato può essere assorbito senza problemi, grazie anche al consistente irrobustimento patrimoniale che le autorità di vigilanza hanno perseguito negli ultimi anni. L’esposizione totale verso Russia e Ucraina è complessivamente modesta (131 miliardi di dollari), ma concentrata nelle banche europee, in particolare in Francia, Italia e Austria. Per tre di esse, l’esposizione supera il 40 per cento del totale attivo. Questo ha amplificato il già ampio divario rispetto agli Stati Uniti: l’indice azionario europeo di settore ha perso il 20% rispetto a febbraio, contro l’8% di quello Usa. Una brutta notizia per sistemi bancari che devono ancora superare del tutto gli effetti della grande crisi finanziaria.
Uno scenario molto complicato, che spiega perché il Fondo dice che le banche centrali oggi sono come equilibristi che camminano su un filo: devono evitare il radicarsi delle aspettative di inflazione e quindi aumentare i tassi di interesse, senza creare una recessione e soprattutto senza accentuare i tanti elementi di fragilità accumulati nei passati decenni. Il premio Nobel Paul Krugman sostiene che per l’economia americana questo è possibile, ma non facile. Fosse europeo, forse sarebbe ancora meno ottimista.
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