Se le banche italiane tornano a comprare titoli di Stato
di Maximilian Cellino
3' di lettura
Ormai non ci sono più dubbi: le banche italiane hanno ricominciato ad accumulare titoli di Stato nei propri portafogli, incuranti dei rischi che potrebbero scaturire da un rallentamento e da un successivo stop degli acquisti di titoli pubblici da parte della Bce (il tapering ) e anche dell’ipotesi di una variazione delle regole per la ponderazione del rischio sui bilanci bancari. Lo dimostra il fatto che ad aprile la quota detenuta in BTp e simili sia cresciuta di 3,2 miliardi di euro a sfiorare i 395 miliardi, e soprattutto che si sia trattato del quarto mese consecutivo di incremento dopo una seconda parte del 2016 in cui le operazioni di smobilizzo l’avevano invece fatta da padrone.
Certo, la correzione sperimentata lo scorso anno da luglio a dicembre era stata ben più rilevante: con i 20 miliardi in più di titoli di Stato accumulati da inizio 2017 si arriva a coprire circa la metà del deflusso registrato nei 6 mesi precedenti e il livello attuale detenuto rimane inferiore rispetto ai picchi del 2015-2016. Con quattro dati simili di fila è tuttavia più facile ipotizzare un’inversione di tendenza rispetto a un semplice effetto temporaneo o dettato da stagionalità, che a sua volta si lega solo in parte all’allontanarsi dei rischi di tapering e di inasprimento delle regole sul patrimonio.
È infatti innegabile che con il rallentamento della corsa dell’inflazione nell’Eurozona, certificato anche dalle revisione delle stime operata la scorsa settimana dalla Bce, la prospettiva della fine del quantitative easing si sia spostata in avanti rispetto a quanto si pensava qualche mese fa: bene che vada se ne riparlerà ormai nel 2018 e il disimpegno dell’Eurotower sarà comunque graduale, visto che i proventi derivanti da cedole e titoli scaduti continueranno a essere reinvestiti. Così come il rinvio di Basilea IV contribuisce senza dubbio ad allentare la tensione che circonda i temi regolamentari legati alle banche.
In gioco però ci sono anche altri fattori, primo fra tutti la tenuta forse inattesa delle quotazioni dei titoli obbligazionari a livello globale. Dati per spacciati per il ritorno prepotente del duo inflazione-crescita e dal cambio di regime nelle politiche monetarie, i bond hanno per il momento evitato la disfatta, anzi: il decennale Usa rende oltre 20 cent meno di inizio anno nonostante il ciclo rialzista della Fed; il Bund tedesco viaggia ancora a 0,25% e perfino lo stesso BTp, influenzato più che altro dall’alternarsi delle vicende politiche nostrane, è tornato sotto al 2%.
Di questo revival del reddito fisso parrebbero per la verità essersi accorte quasi esclusivamente le banche italiane, se è vero che confrontando i dati pubblicati dalla Bce e analizzati da UniCredit Research si scopre che solo da noi negli ultimi 4 mesi si è aumentato il quantitativo di titoli di Stato. Le banche tedesche (-14 miliardi) e quelle spagnole (-5 miliardi) hanno continuato a tirare il freno, mentre le francesi hanno mantenuto invariate le posizioni, pur fra gli alti e bassi legati all’avvicinarsi delle elezioni Presidenziali.
C’è da considerare un ulteriore elemento: a marzo è andata in scena l’ultima asta di rifinanziamento a lungo termine (Tltro) Bce, che è stata utilizzata dalle banche italiane per fare il pieno di liquidità. Oltre 233 miliardi sono stati infatti richiesti da 474 istituti di credito di casa nostra, ed è plausibile che parte di questo denaro sia rimasta parcheggiata proprio in titoli di Stato in attesa di essere impiegata. Per stabilire davvero se si tratti di una nuova tendenza all’accumulazione si dovrà quindi attendere qualche mese, quando questo effetto sarà terminato. Intanto però non si può fare a meno di notare come nel confronto europeo l’Italia resti di gran lunga anche il Paese in cui più si preferiscono i titoli di casa propria (addirittura il 91% del totale): un home bias che rappresenta un sostegno ai BTp, ma che accentua anche il legame stato-banche potenzialmente pericoloso e malvisto dalle authority.
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