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Se camminare cambia il senso della marcia

Le vicende di uomini e donne rinati accettando le difficoltà dei percorsi a piedi. La meta è accessoria, è un pretesto per misurarsi

di Maria Luisa Colledani

Lungo la costa dell’isola di Creta (Patrizio Pierallini)

3' di lettura

In cinese la parola «tao» significa cammino ed è composta da due radicali, uno raffigurante «due piedi», l’altro «una testa». Perché non si cammina solo con la forza delle gambe e il cuore che pompa sangue ma con il desiderio di purificare lo sguardo, lavare i luoghi comuni, dare scacco matto alle paure, spazzar via l’urbanizzazione. Camminare è nient’altro che sapersi fermare, è un rito iniziatico dentro di sé per ritrovare altre voci, altre stanze. Per scoprire la vita davanti a sé. David Le Breton, sociologo e antropologo francese che in passato aveva già dedicato testi profondi al senso dell’andare (Il mondo a piedi. Elogio della marcia 2000, Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza 2012), torna sulle sue tracce con La vita a piedi. Una pratica della felicità per convincerci - e ci riesce, pagina dopo pagina - che camminare è metronomo dell’umore e della gioia.

La fatica del primo passo

Importante è mettersi in marcia. È faticoso, certo, alzarsi dal divano e abbandonare le sicurezze, pur tetre e strette della quotidianità. Ma ci sono posti che quasi ci aspettano, orizzonti dove in simultanea emergono riconoscimento e rapimento perché, come ha scritto quel gran ecologista che fu Henry David Thoreau, «mi dicono che proprio là la mia vita mi verrà incontro e, come un cacciatore, cammino per trovarla». Il silenzio intorno, i sensi che si affinano: «camminare restituisce lo spessore della presenza, è uno strumento potente per ritrovarsi». In una parola per esistere che, come da etimologia (ex-sistere), altro non è che fuggire da sé, allontanarsi da un luogo fisso.

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Certo in passato, e ancor oggi, per molte popolazioni andare a piedi è una faccenda che riguarda poveri, migranti, un’esigenza vitale. Lo è anche per noi, facciamo appello all’inutile per trovare l’essenza e una vita lunghissima. Se pensiamo che una giornata di cammino corrisponde a mezz’ora di automobile, in fondo, forse camminiamo per vivere più a lungo e andare lontanissimo. Le Breton racconta di essere stato colto dal desiderio dell’Amazzonia a un certo punto della vita, ovvero di «un luogo in cui alla fine scomparire o ricominciare». Apprezzando la lentezza che tutto dilata e un ritmo personale di marcia che fa crescere dentro una “fatica buona”: «l’uomo vero respira con i talloni», scrisse nel IV secolo a.C. il mistico cinese Chuang Tzu. Ma quanto è attuale la sua riflessione. Come pure le pagine memorabili di Matsuo Bashō: «l’incompiutezza è la condizione dell’umanità, e afferrare al volo ciò che accade è un modo per fondersi nel tempo, non per fermarlo ma per nutrirsene».

Non solo Santiago

Forse i cammini, soprattutto quello che porta alla tomba di San Giacomo, in Spagna, sono diventati una moda: il protestantesimo li aveva banditi come forma di superstizione, la modernizzazione del XX secolo aveva lasciato poco spazio, poi sono rinati, poco per volta dagli anni 70. Nel 1982 a Santiago si erano contati 182 pellegrini, 4.500 nel 1990, 25.200 nel 1997 e oggi si sfiora il mezzo milione. Solo moda? «La meta è accessoria, è un pretesto per mettersi in strada», per misurarsi, misurare le proprie forze, ritrovare il proprio corpo, lo spazio, il silenzio e gli altri e succhiare fino in fondo il midollo della vita.

Intorno il paesaggio, le piante, i luoghi palpitano: per gli indiani la terra è un’anima, in Giappone i kami sono potenze contenute in una roccia, in una cascata, in un albero, per i popoli andini la terra è un corpo vivente le cui vene sono i fiumi e i capelli le piante. Sono lì da sempre e camminarci in mezzo regala attimi di grazia e respiro di infinito perché l’uomo, scrisse John Muir, «è parte della natura intera, né vecchio né giovane, né malato né sano, ma immortale».

Il viaggio finisce e si deve ripartire

Le gambe sono pesanti, il cuore si espande e Le Breton ripercorre tante vicende di uomini e donne persi nei meandri del dubbio e rinati grazie alla capacità di fermarsi, di accettare le difficoltà dei lunghi percorsi: «i camminatori partono perché hanno perso il loro centro di gravitazione, avanzano al loro ritmo per andare incontro a ciò di cui sentono la mancanza». Quando si ritorna, le cicatrici sono ancora lì ma la vita è piena di luce, come quella dei vasi che i Giapponesi restaurano con l’arte del kintsugi, l’arte del riparare con l’oro. Le crepe ci sono, ma brillano perché il cammino è medicina. Sylvian Tesson, nel suo Sentieri neri, ricorda che aveva subìto una caduta rovinosa ma scrive «sono partito zoppicando, sono tornato dritto. Ho preso le distanze da tutta quella tetraggine che incombeva su di me alla partenza». E, quando il viaggio è finito, è già ora di ripartire. Per altri luoghi, per altri racconti.

La vita a piedi. Una pratica della felicità

David Le Breton

Raffaello Cortina, pagg. 224, € 14

Riproduzione riservata ©

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