Se il dollaro frena le ambizioni americane
di Domenico Lombardi
3' di lettura
Le recenti dichiarazioni dell’amministrazione Trump sull’euro hanno creato nei giorni scorsi non poca sorpresa in Europa, ma cerchiamo di capirne le motivazioni, le tattiche e gli scenari nei quali tali dichiarazioni si possono collocare.
La neoamministrazione sta ridisegnando la mappa delle relazioni commerciali degli Stati Uniti con il resto del mondo e, con le recenti affermazioni sugli indebiti vantaggi che la Germania ottiene per il suo export da un euro sottovalutato, ha inteso segnalare in modo inequivocabile l’affossamento del Ttip, il trattato per un accordo di libero commercio e cooperazione economica tra Ue e Stati Uniti, i cui negoziati erano cominciati con l’amministrazione Obama. Nel linguaggio di Washington, le politiche commerciali e quelle valutarie sono viste in modo quasi intercambiabile e, generalmente, apprezzamenti sulle seconde servono a ricalibrare la postura sulle prime.
In realtà, i negoziati per il Ttip procedevano a rilento da tempo, riflettendo la frustrazione della precedente amministrazione nei confronti della maggiore economia dell’Eurozona – in strutturale avanzo delle partite correnti sin dall’introduzione della moneta unica il cui saldo, in rapporto al Pil, ha toccato il valore record di circa il 9 per cento lo scorso anno (per converso, l’analogo valore per la Cina è 2,4).
Era immaginabile, pertanto, che se il Ttp – il trattato con 11 economie del Pacifico, la cui bozza di accordo era stata già concordata – veniva bloccato all’indomani dell’insediamento del neopresidente alla Casa Bianca, la stessa sorte sarebbe toccata al Ttip. La precedente amministrazione aveva già collocato la Germania in una lista “grigia” di partner commerciali da monitorare utilizzando un linguaggio particolarmente forte.
Allora come oggi, la preoccupazione era di contenere l’apprezzamento del dollaro. A differenza della precedente amministrazione, però, la presidenza Trump ha un problema ulteriore: le fragili fondamenta del proprio obiettivo di crescita pari al 3,5 per cento l’anno, in assenza di riforme strutturali e in contrasto con le stime che sia la Fed sia l’Fmi hanno della crescita potenziale pari a circa il 2 per cento.
L’apprezzamento del dollaro, pertanto, accentua la fragilità dell’obiettivo, vanificando lo stimolo di una politica fiscale espansiva. Ma come spesso accade nella retorica della nuova amministrazione, un aspetto fattuale (la debolezza dell’euro) viene inserito in un mix di considerazioni discutibili che ne minano la conclusione finale. La debolezza dell’euro, infatti, non riflette l’intento della Bce di conseguire un indebito vantaggio competitivo per l’export dell’Eurozona, ma scaturisce dalle politiche monetarie espansive – verso cui l’opposizione della Germania va, peraltro, inasprendosi – per combattere la bassa inflazione nell’area monetaria, analogamente a quanto accadde al dollaro quando la Fed introdusse vari round di quantitative easing in seguito alla crisi finanziaria.
L’asimmetria sta, piuttosto, nel fatto che l’euro ha eliminato il meccanismo compensativo che lega l’avanzo delle partite correnti con l’apprezzamento della moneta. Pertanto, la Germania può continuare a generare consistenti avanzi correnti senza che, per questo, il valore esterno della moneta di denominazione dei suoi scambi ne rifletta simmetricamente lo squilibrio correggendolo. È uno dei vantaggi dell’euro di cui la sua economia beneficia.
Le reazioni da Berlino riflettono il nervo scoperto: secondo un alto funzionario del governo non ci si dovrebbe meravigliare dell’avanzo corrente tedesco, così come nessuno si chiede quale sia l’avanzo della California negli Stati Uniti. In quest’ultimo caso, però, la California è parte di un sistema federale, non di un’area monetaria tra Paesi formalmente sovrani, alcuni certamente più di altri.
loading...