scienza

Se in fondo siamo quello che siamo

Per il lbro di Robert Plomin, “L’impronta genetica come il dna ci rende quelli che siamo”, i geni modellano in gran parte le nostre personalità

di Gilberto Corbellini

4' di lettura

Le reazioni suscitate dall’ultimo libro di Robert Plomin, nel mondo anglosassone, sono state forse più interessanti del libro, che dice poco di originale, a parte l’idea di usare i punteggi ricavati dalle analisi genomiche su ampia scala per risalire alle basi genetiche dei tratti comportamentali. Le critiche non sono mancate, tra cui una recensione su «Nature», dove senza argomentare, e con retorica ideologica e offensiva, l’autore accusa Plomin di essere un determinista genetico e un eugenista. In realtà, egli ripete almeno una decina di volte che pur esistendo ampie prove che i geni pesano più dell’ambiente nel dar forma al comportamento umano, la loro azione è di natura statistico-probabilistico. Per cui si dovrebbe parlare di indeterminismo genetico. Inoltre, egli dice più volte che scoprire una base genetica del comportamento, non ha alcuna implicazione politica, ed è da stupidi negare dei fatti o la verità nel nome di fuorvianti partigianerie politiche.

Se si scopre che qualche variante genica determina velocità e resistenza podistica o vulnerabilità a qualche malattia lieve o letale, nessuno si strappa i capelli e nega che possa essere vero. Ma se qualcuno sostiene che i geni sono correlati in modi statisticamente significativi con quanto siamo intelligenti, altruisti, xenofobi, predisposti alla depressione, etc., apriti cielo. Così, se un bambino è amato e cresce in un ambiente confortevole, sicuro e intellettualmente stimolante, ci aspettiamo che abbia un rendimento scolastico e nella vita migliori rispetto a un bambino cresciuto in condizioni di abbandono familiare e privazione sociale. In generale è così, ma ci sono prove, sostiene Plomin, che i fattori sociali contano meno di quelli biologici.

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Le tradizioni progressiste e di sinistra, ma non solo preferiscono credere che tali comportamenti siano costruzioni sociali, determinate dagli ambienti familiari e dalle società in cui siamo nati. E che siano modificabili attraverso opportune politiche economiche e sociali che si tradurranno in miglioramenti cognitivi e morali. Per le tradizioni conservatrici le stratificazioni sociali sono determinate soprattutto dalla condizione di nascita. I primi pensano quindi che se accettiamo l’argomento dell’ereditarietà, ciò condurrà a incolpare i poveri o i delinquenti per la loro condizione, e a mantenere ai ricchi i privilegi. Il che disorienta e porta a negare i fatti. A fronte dei risultati di uno studio pubblicato da Plomin e altri, nel quale si dimostrava che il «successo accademico» degli studenti non dipendeva dal tipo di scuola, più o meno selettiva, ma dalle differenze genetiche individuali, il progressista «The Guardian» replicava con un editoriale dove le idee di Plomin erano definite «perniciose e incendiarie». Così forti possono essere i pregiudizi e le credenze su cui si fondano.

Se nascondiamo i fatti perché li giudichiamo politicamente sconvenienti o pericolosi, quei fatti non smettono per questo di avere conseguenze. Come scrive Plomin, non ci sono implicazioni politiche necessarie per il fatto di scoprire che la genetica è la principale forza sistematica (è importante l’aggettivo, perché anche l’ambiente è una forza in gioco, ma non sistematicamente) che ci rende ciò che siamo. I conservatori che da sempre dicono che si dovrebbe investire per educare i migliori (che sono poi i «nati meglio» e non quelli testati come davvero più utilmente educabili), sono miopi a pensare così, perché il capitale intellettuale di una società dipende da molti, non solo da pochi. I progressisti, invece di negare il peso delle differenze genetiche, potrebbero chiedere di investire risorse per portare i bambini che nascono con complessi di geni meno funzionali, a livelli minimi di alfabetizzazione linguistica e matematica necessari per vivere attivamente in un mondo sempre più tecnologico. Anche perché, più riduciamo le differenze ambientali, più evidenziamo le differenze genetiche. In altre parole, se vogliamo l’uguaglianza delle opportunità, allora si deve essere pronti a riconoscere una disuguaglianza di risultati geneticamente determinata.

Non sono posizioni facili da difendere, quelle di Plomin, in un mondo sempre più polarizzato. Ma lasciarsi guidare dai fatti e dalla razionalità è meglio che cadere vittima dell faziosità politiche e si rimane indifferenti anche agli insulti degli ignoranti.

La parte più interessante del libro di Plomin è quella sulla malattia mentale. La ricerca genetica suggerisce che i disturbi mentali sono spettri che variano quantitativamente in ragione dell’espressione di molti geni. Plomin usa come esempio la depressione e mostra come si usa il punteggio poligenico. Se ci trovassimo 1.000 differenze nel DNA tra due gruppi di controllo di persone depresse e non depresse, potrebbe darsi che nella popolazione generale la persona media abbia 500 di queste differenze che causano depressione. Quelli con un numero inferiore sarebbero meno a rischio di diventare depressi e quelli con più differenze, a maggior rischio. È una questione di probabilità, non di certezza - una predisposizione di fondo che potrebbe essere innescata da eventi imprevedibili. La conclusione è che non esistono le malattie mentali come entità cliniche ma solo spettri continui di variazioni. Di fatto gli psichiatri non curano o guariscono un disturbo, perché non esiste alcun disturbo, in quanto tutto è quantitativo. Possono migliorare i sintomi, che è quello che si fa già oggi.

Plomin forse è troppo ottimista sull’utilità dei punteggi poligenici, dato che mancano sufficienti dati sulla diversità delle popolazioni per ottenere risultati affidabili. Oltre l’80% dei partecipanti agli studi genetici è di discendenza europea, il 14% asiatica e solo il 6% da altre popolazioni. Gli alleli associati al tratto di interesse possono avere frequenze diverse tra le popolazioni come risultato di eventi demografici, quali migrazioni e colli di bottiglia della popolazione, che possono distorcere i risultati.

Robert Plomin, L’impronta genetica. Come il Dna ci rende quelli che siamo, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 260, € 18.70

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