Se l’“occasione pandemica” ci fa riflettere sulle nostre libertà
Man mano che l'emergenza si normalizza, il progetto di ripartenza del Paese dev'essere guidato da una visione politica, sulla quale certamente occorrerà far coagulare il consenso democratico
di Vittorio Pelligra
10' di lettura
Dopo lo “shock antropologico”, come lo avrebbe definito Ulrich Beck, che abbiamo vissuto in questi mesi di lockdown, e ora che ci apprestiamo ad una ripartenza cauta e un po' confusa, uno dei temi che si pone con maggiore urgenza alla riflessione pubblica è quello relativo alle nostre libertà.
Se siamo stati più che disposti a chiuderci in casa - il 95% degli italiani si dice d'accordo con misure severe di distanziamento sociale - per cercare di contenere la diffusione del virus nel momento di maggiore impulso della spinta epidemica; se abbiamo accettato di buon grado lo stravolgimento della vita familiare, lavorativa e scolastica, ora, nel momento della timida riconquista di una parvenza di normalità ci chiediamo fino a che punto i nostri spazi di libertà, di autonomia e di privacy saranno sacrificati al virus, alla ripartenza dell'economia, ad una nuova quotidianità che, chissà per quanto tempo ancora, sarà totalmente differente da ciò che la stessa parola semplicemente definiva anche solo pochi mesi fa.
Accordo sui fini non scontato
La pandemia ci ha portato via le nostre giornate, la scuola dei nostri figli, gli abbracci dei nostri cari, la libertà di muoverci, viaggiare e progettare. Ora che si allentano i vincoli, quanto di tutto ciò ci verrà restituito? Quanto e come saremo nuovamente liberi? Abbiamo percepito i provvedimenti presi dai governi in questa emergenza essenzialmente come soluzioni tecniche, su cui si è ottenuto un livello ora maggiore ora minore di consenso, ma raramente si è messo in discussione il fine della lotta al contagio. Il tema, quindi, è sempre stato tecnico e quasi mai politico. Lo testimonia lo spazio giustamente dedicato a comitati tecnico-scientifici, a singoli scienziati, alla scienza più in generale, che mai come in questi mesi, abbiamo visto al centro dell'agorà pubblica. Ma ora le cose stanno cambiando. L'accordo sui fini non può più essere dato per scontato. Man mano che l'emergenza si normalizza, il progetto di ripartenza del Paese dev'essere guidato da una visione politica, sulla quale certamente occorrerà far coagulare il consenso democratico, ma che non si potrà nascondere dietro il tema della necessità tecnica.
Ecco quindi che il tema della libertà diventa centrale. Un tema naturalmente gigantesco, ma sono convinto che questa “occasione pandemica” possa anche essere un tempo privilegiato per andare a fondo su questa, come su alcune altre idee cruciali: la salute, l'interdipendenza, la comunità cosmopolita e l'immunità locale, per esempio. Vorrei offrire, al riguardo, tre riflessioni che hanno a che fare, rispettivamente, con i concetti di libertà positiva e negativa, con l'idea di paternalismo libertario e, infine, con l'essenza del pluralismo democratico.
Le due libertà politiche di Berlin
Qualunque discussione sui due concetti di libertà non può che prendere avvio dall'opera del grande filosofo liberale, Isaiah Berlin. Fu lui, infatti, a porre con forza e cogenza inedita, la questione della pluralità e, per qualche verso, anche dell'incompatibilità delle differenti concezioni di libertà politica: da una parte l'accezione negativa della libertà, il non essere impediti da nessun altro nelle proprie scelte, la libertà dalla coercizione e perfino dall'intromissione nel proprio foro interno; dall'altra, la versione positiva, e cioè, la libertà di essere padroni di sé stessi, di essere “un soggetto e non un oggetto (…) Voglio essere mosso da ragioni - specifica Berlin - da propositi consapevoli che siano i miei e non da cause che agiscono su di me, per così dire, dall'esterno” (“Libertà”, Feltrinelli, 2005).
Questa distinzione è importante non solo perché le due visioni di libertà hanno informato, nei secoli, progetti politici molto differenti tra di loro, ma anche perché esse possono essere, tra loro, incompatibili. Appaiono, infatti, solo superficialmente come due facce della stessa medaglia, ma sono, in realtà, idee separate e profondamente differenti. Non coglierne la diversità determina posizioni incoerenti e perfino pericolose. La libertà di non dover sottostare a regole precauzionali e igieniche codificate, può scontrarsi con la libertà di un esercente di riaprire la propria attività in sicurezza. La libertà di non rivelare informazioni personali su contatti e spostamenti può contrastare con la libertà di molti di prevenire l'insorgenza di nuovi focolai. La libertà di denunciare una presunta violazione di tali norme può contrastare con la libertà di esercitare la propria responsabilità in coscienza e la propria autonomia decisionale.
Alla ricerca di un equilibrio
Non si tratta tanto di trovare giustificazioni o di combattere limitazioni temporanee o parziali della libertà: saremmo tutti ben felici di poter costringere i nostri figli ad andare a scuola come facevamo prima. Non abbiamo problemi ad indossare la cintura di sicurezza in macchina o il casco in moto. Non avremmo nessun problema ad indossare un camice e i calzari per entrare in un ospedale o a disinfettarci le mani prima e dopo aver usato un bancomat. “La libertà negativa è falsata - sostiene Berlin in una famosa intervista al filosofo iraniano Ramin Jahanbegloo - quando si dice che la libertà deve essere la stessa per tigri e pecore, che non si può fare altrimenti, che lo Stato non può esercitare alcuna costrizione anche se così facendo si permette alle prime di mangiare le seconde. La libertà senza limiti dei capitalisti distrugge quella degli operai, la libertà senza limiti dei proprietari delle fabbriche o dei genitori condurrà i figli a lavorare nelle miniere di carbone. È certo che il debole deve essere protetto dal forte e la libertà, in certa misura, ne viene limitata. La libertà negativa deve essere limitata perché la libertà positiva possa essere realizzata in maniera sufficiente; ci deve essere tra le due un equilibrio in merito al quale non si possono enunciare dei principi chiari” (“In libertà. Conversazioni con Ramin Jahanbegloo”, Armando Editore, 2012).
Il punto da evidenziare, dunque, non è neanche tanto quello relativo a quale dei due principii, libertà positiva o libertà negativa, attribuire priorità in questa fase, ma piuttosto al fatto che questi due principii, giusti entrambi, non sempre sono compatibili tra loro. Occorre, da una parte, scegliere di volta in volta e assumersi la responsabilità politica, consci del fatto che l'unanimismo tecnico, non regge più in questa fase post-emergenziale, ma dall'altra non appiattirsi sulla rivendicazione di una libertà esclusivamente intesa come assenza di coercizione. Qui si nasconde, infatti, un paradosso che in questi mesi è diventato importante come mai, forse, prima: la libertà esclusivamente intesa come libertà di fare ciò che si desidera, oggi, può essere molto pericolosa: se mi rendo conto, infatti, di non poter più fare alcune cose, potrei semplicemente scegliere di non volerle più fare. Possiamo seriamente affermare, come farebbero i fautori della visione negativa, che questo aumenterebbe la mia libertà? Certamente no.
Paternalismo peggior dispotismo
Nella stessa intervista, Berlin poneva il problema delle due idee di libertà in questo modo: “Ci sono due questioni distinte. L'una è: “Quante porte mi si sono aperte?”. L'altra è: “Chi è il responsabile qui? Chi controlla?”. Queste domande si intrecciano, ma non sono identiche e richiedono risposte diverse. “Quante porte mi si sono aperte?” è una domanda relativa all'estensione della libertà negativa: quali ostacoli mi si presentano? Cosa mi verrà impedito di fare - in modo deliberato o in modo indiretto, involontariamente o per via istituzionale? L'altra domanda è: “Chi mi governa?” “mi governano altri o mi governo da solo?”. Questa ultima domanda ci porta direttamente alla seconda riflessione che vorrei proporre, intorno al concetto di “paternalismo libertario”.
È difficile non essere d'accordo con Kant quando afferma che “Nessuno può costringermi ad essere felice a modo suo (…) il paternalismo è il peggior dispotismo che si possa immaginare”. Il problema che Kant non aveva considerato e che molti liberal-libertari ancora si rifiutano di considerare è che, in realtà, non si può non essere paternalisti. Ma che vuol dire? Vuol dire semplicemente che le nostre scelte non avvengono nel vuoto. Hanno luogo all'interno di “contesti” che le influenzano, direttamente o indirettamente, consciamente o inconsciamente, di proposito o in maniera fortuita. Chi non riesce ad accettare questo si comporta come i due giovani pesci della storiella di David Foster Wallace: “Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: «Salve, ragazzi. Com'è l'acqua?» I due pesci giovani nuotano un altro po', poi uno guarda l'altro e fa: «Che cavolo è l'acqua?»”. Siamo dentro l'acqua e non la vediamo. Siamo dentro “strutture decisionali” che influenzano le nostre scelte e non le vediamo.
“Spintarella gentile”
Perché, quando andate a prelevare al bancomat, il pulsante per richiedere lo scontrino è a sinistra e non a destra? La cosa non è casuale. Infatti, negli apparecchi della mia banca, fino a non molto tempo fa il pulsante con il “si, voglio lo scontrino” era a destra, poi è stato spostato a sinistra. Perché? Perché la maggior parte di noi e destrimana e l'opzione che viene posta a destra è la preferita, mentre se l'opzione è posa a sinistra, il movimento è meno naturale, ci pensiamo due volte e magari, se proprio non ci serve, decidiamo di premere “no, non mi serve lo scontrino”. Per noi una scelta quasi irrilevante, ma sarebbe interessante chiedere alla banca quanto ha risparmiato grazie a questo escamotage. Definireste la banca paternalista? Non vi sta dicendo che dello scontrino non ve ne fate niente. L'opzione per richiederlo è sempre lì.
La vostra possibilità e la vostra libertà di richiederlo è rimasta inalterata, ma, ora che l'opzione è a sinistra invece che a destra, la probabilità che lo richiediate è leggermente ridotta. La banca ha adottato un “nudge”, una “spintarella gentile” per indurvi ad un comportamento che riduce i suoi costi e anche quelli per l'ambiente. È paternalismo, certo, ma anche libertario, perché l'opportunità e la libertà di scelta non vengono minimamente scalfite dall'intervento.
Architetti della scelta
Così come gli architetti progettano gli ambienti nei quali viviamo e lavoriamo, gli architetti della scelta progettano gli ambienti nei quali prendiamo le nostre decisioni. In che modo? Mettendo in moto e sfruttando il funzionamento stesso dei nostri processi decisionali. L'asimmetria destra sinistra è uno; un altro principio è l'avversione alle perdite: una perdita determina una variazione nel nostro benessere pari a circa due volte e mezzo quella determinata da un guadagno corrispondente. Porre quindi una decisione in termini di potenziali guadagni o di perdite evitate non è irrilevante.
Un altro principio è quello che ci fa avere un'attrazione sconsiderata per lo status quo. Le cose ci piacciono così come sono e cambiare costa. Per questo Amazon ci offre l'abbonamento Prime gratuitamente per un mese, nella speranza (quasi-certezza?) che molti di noi alla fine, abituati al nuovo status quo, non lo annulleranno. Il “nudging” è quella disciplina che studia e guida l'attività degli architetti delle scelte. Siccome non si può scegliere nel vuoto, tanto vale che queste architetture siano palesi ed utilizzate, non solo dalle imprese, in maniera poco trasparente, per massimizzare i loro profitti, ma all'interno delle politiche pubbliche, in maniera trasparente, per spingere i cittadini verso scelte migliori.
Migliori per chi? “L'obiettivo chiave della spinta gentile - secondo il giurista di Harvard, Cass Sunstein - è migliorare il benessere di coloro che scelgono, secondo il giudizio di questi ultimi. È un'idea che attinge dalla tradizione filosofica liberale, nel senso che assegna l'autorità finale ai singoli individui che compiono la scelta. Li rende sovrani (…) Possiamo insistere quanto vogliamo sulla libertà di scelta, ma non possiamo eliminare l'architettura della scelta”. (“Sulla libertà”. Einaudi, 2020).
Processi celebrali “in incognito”
Naturalmente questo approccio solleva interrogativi legittimi e anche fondati. Come cambia la libertà alla luce delle nuove conoscenze che psicologi cognitivi e neuroscienziati ci danno rispetto ai nostri processi decisionali? Un tema analogo e non meno rilevante riguarda la responsabilità personale e il libero arbitrio alla luce delle scoperte relative a quanto le nostre scelte siano determinate da processi cerebrali che operano “in incognito” e sui quali non abbiamo nessun controllo cosciente. Non sono pochi quelli che pensano che, per favorire quei radicali cambiamenti comportamentali di cui la nuova fase di riapertura necessita, l'utilizzo delle “spintarelle gentili” debba affiancare obblighi, divieti, incentivi e sanzioni.
Sarebbe una scelta paternalistica? Certamente no. Sarebbe una scelta efficace? Questa è una questione empirica che sarebbe interessante indagare sperimentalmente. Il concetto di libertà, come abbiamo visto, non è univoco, chiaro e scontato. È, piuttosto, plurale, a volte ambiguo e in continua mutazione. Eppure, è un valore fondamentale al quale non dovremmo rinunciare e che va preservato con forza e determinazione.
Pianificazione e spontaneità
Con quali armi? Qui, ancora una volta, ci viene in soccorso il pensiero di Berlin, in particolare quando sviluppa una delle sue intuizioni più sottili e profonde: possono esistere modi di vita, principi ideali, visioni del mondo, tutti singolarmente giusti e validi, eppure tutti ugualmente incompatibili tra loro. Non è possibile concepire un mondo nel quale tutti questi valori possano essere resi compatibili.
“Credo che certi valori essenziali - afferma Berlin - che determinano la vita degli uomini non possano essere riconciliati o associati, non solo per delle ragioni pratiche, ma per principio, per ragioni concettuali. Nessuno può essere allo stesso tempo pianificatore meticoloso e completamente spontaneo. Non si possono tenere insieme completa libertà e completa uguaglianza, giustizia e indulgenza, sapere e felicità. Se tutto ciò è vero, l'idea di una soluzione perfetta per i problemi umani non può esistere. Il fatto non è tanto che una tale armonia sia difficile da realizzare, per qualche ragione pratica, ma piuttosto che è concettualmente incoerente. Le soluzioni utopiche sono incoerenti e inconcepibili - in effetti queste soluzioni vogliono conciliare l'inconciliabile -, un certo numero di valori umani non possono essere conciliati perché sono in conflitto; è la ragione per cui bisogna garantire la possibilità di scegliere”.
Il tema della libertà, dunque, si rispecchia in quelli del pluralismo, del rispetto per il diverso e della deliberazione politica che porta alla costruzione del consenso. “Ciò di cui abbiamo bisogno - continua il filosofo - è un sistema di valori plurali nel quale non esistano situazioni in cui gli uomini siano costretti a fare qualcosa che sia contrario alle loro convinzioni morali più profonde. In una società liberale pluralista non si possono evitare i compromessi: si può sempre evitare il peggio attraverso delle reciproche concessioni”. Ma attenzione, perché pluralismo e liberalismo non sono la stessa cosa, non si implicano neanche a vicenda.
“Catastrofismo emancipatorio”
“Esistono teorie liberali - spiega il liberale Berlin - che non sono pluraliste. Credo sia al liberalismo sia al pluralismo, ma questi non sono uniti da alcun nesso logico. Il pluralismo implica che, poiché è possibile che nessuna riposta definitiva venga infine fornita a fronte di questioni morali e politiche, o a ben vedere a qualsiasi questione di valore e, a maggior ragione, che alcune risposte non siano compatibili tra di loro, si debba fare posto a una vita nella quale i valori possano rivelarsi incompatibili, in modo che i conflitti possano essere scongiurati, i compromessi raggiunti e un grado minimo di tolleranza garantito”. Se questa convinzione fondamentale diventasse coscienza diffusa, allora la pandemia avrà operato nel solco del “catastrofismo emancipatorio” - sempre per usare il linguaggio di Ulrich Beck - perché avrà fatto germinare un bene da un male. Ci avrà resi, forse, un po' più forti e un po' più civili, perché “rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni, eppure difenderle senza indietreggiare - come ci insegna Joseph Schumpeter - è, alla fine, ciò che distingue un essere civile da un barbaro”.
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