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Se la trasparenza sulle retribuzioni non garantisce parità

È stata pubblicata la direttiva (UE) n. 2023/970 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 10 maggio 2023, volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro, o per un lavoro di pari valore, attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione

di Gabriele Fava

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3' di lettura

È stata pubblicata la direttiva (UE) n. 2023/970 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 10 maggio 2023, volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro, o per un lavoro di pari valore, attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione. Di cosa tratta precisamente tale direttiva e cosa saranno tenuti a fare gli Stati membri UE, ce lo descrive chiaramente la nota del Parlamento: gli Stati dovranno assicurare un regime di tutele e di informazioni sulla parità di retribuzione e su come la retribuzione stessa viene applicata nei rapporti di lavoro. Prima di tutto per le aziende che occupano da 100 a 250 lavoratori, sarà previsto, da giugno 2027, un vero e proprio obbligo di redigere rapporti approfonditi sul gender pay gap nelle sue diverse componenti retributive, sempre facendo riferimento a valori medi e aggregati. Obbligo che, se non verrà rispettato dalle imprese, farà scattare una serie di sanzioni.

Uno degli elementi chiave della direttiva è il divieto del segreto salariale. Questo divieto mira a garantire che le aziende siano trasparenti riguardo alle retribuzioni dei loro dipendenti; i lavoratori potranno così confrontare i loro stipendi con quelli dei colleghi del sesso opposto che svolgono le stesse mansioni o mansioni di valore equivalente. Viene, inoltre, previsto che i lavoratori che abbiano subito un danno, a seguito di una violazione di un diritto o di un obbligo connesso al principio della parità di retribuzione, avranno il diritto di chiedere e ottenere il pieno risarcimento.

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Siamo sicuri che questa Direttiva sia la chiave per garantire la parità salariale tra uomo e donna? La trasparenza salariale, che la Direttiva introduce, nel nostro Paese risulta essere già di gran lunga attuabile con le norme presenti in campo fiscale, in fase di comunicazione dei redditi. Risulta quindi evidente che imporre alle aziende una ulteriore serie di obblighi non porterebbe un giovamento circa la parità di genere bensì potrebbe provocare un appesantimento della burocrazia già estremamente precisa e copiosa nel nostro Paese.

C’è nella differenza salariale fra uomini e donne una discriminazione di genere, che è quella componente non spiegata del gender pay gap che non dipende dalla produttività ma dall’appartenenza di genere, cioè dai pregiudizi e dagli stereotipi che non hanno fondamento economico e che danneggiano le donne, le imprese e la società. Misure come la trasparenza retributiva, non ci garantiscono che un uomo non possa ottenere più facilmente degli elementi variabili della retribuzione di gran lunga superiori rispetto alla collega donna. Ciò anche in considerazione del fatto che, come è specificato, la trasparenza riguarderà le fasce retributive per categoria e non le retribuzioni individuali.

Senza contare che sembra del tutto non considerato il fatto che livelli retributivi differenti potrebbero essere legati al merito e non al genere. Una parificazione forzata delle retribuzioni, quindi, costringerebbe il datore di lavoro ad avere lo stesso trattamento per due dipendenti diversi non solo per genere ma soprattutto dal punto di vista della meritocrazia.

La priorità nel nostro Paese non è certamente la trasparenza retributiva che, come detto, è già presente (anche grazie allo strumento della contrattazione collettiva di primo e secondo livello), bensì, l’introduzione di sistemi premiali basati sul merito. Solo se premiamo il merito avremo una economia sana e, di conseguenza, la parità. Infine, la svolta che si dovrebbe avere il coraggio di intraprendere, riguarda i diritti che vengono, oggi, garantiti soltanto alle donne in quanto considerati «da donna» ponendo in essere una enorme discriminazione. La maternità, ad esempio, non dovrebbe riguardare solo e soltanto la lavoratrice madre ma dovrebbe essere un diritto previsto in egual misura e metodo anche al padre. Così facendo, anche per il datore di lavoro, il fatto di assumere un lavoratore uomo ovvero una donna risulterà indifferente.

Si pensa sempre, in questi casi, sebbene il mondo sia cambiato e ci troviamo all’alba del 2024, che sforzandoci di creare una uguaglianza fittizia tra uomo e donna si possa raggiungere la piena parità, tuttavia, questo tipo di operazioni rischiano - esattamente come le quote rosa - di compromettere la possibilità di raggiungere una uguaglianza reale che tenga conto delle innegabili differenze di trattamento dal punto di vista sociale e lavorativo.

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