leggi & opportunità

Se la tutela degli investimenti minaccia gli Stati

di Andrea Zoppini

Washington, la sede della Banca Mondiale (Afp)

3' di lettura

La sovranità degli Stati nazionali è da tempo in crisi. Spesso il potere di autodeterminazione statale è contestato o limitato. Una delle prove più evidenti è costituita dalle cause risarcitorie, che gli investitori stranieri attivano attraverso giudizi arbitrali contro gli Stati in forza di trattati bilaterali (o multilaterali) di investimento che rinviano alla Convenzione di Washington che ha istituito, presso la Banca mondiale, il Centro internazionale per la risoluzione delle controversie sugli investimenti esteri (Icsid).

L’investitore straniero che reclama tutela si duole del fatto che il legislatore nazionale ha cambiato le norme e pregiudicato o reso meno conveniente l’investimento. Così che la potestà legislativa è limitata non dalle norme sovraordinate della Costituzione repubblicana o del Trattato europeo, ma da chi, invocando i trattati di investimento, ritiene di essere stato leso nel proprio affidamento e chiede di essere risarcito a spese dei cittadini.

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Ad agire contro lo Stato che ha cambiato le norme non è un altro Stato, ma un privato investitore straniero. A decidere la controversia non è un tribunale internazionale, ma un collegio di arbitri privati. Vi è un paradosso ulteriore. Nell’arbitrato sugli investimenti si vedeva lo strumento del capitalismo e della Banca mondiale a tutela delle multinazionali internazionali contro i Paesi le cui economie erano in via di sviluppo e i regimi politici instabili e mutevoli. Quest’arma si è rivolta pure contro i Paesi Ue.

Ci sono undici arbitrati contro l’Italia, la maggior parte riguarda casi nei quali il legislatore ha modificato in senso peggiorativo le condizioni economiche previste per incentivare la produzione di energia fotovoltaica. Lo stesso è avvenuto contro Spagna e Repubblica Ceca. Gli investitori stranieri invocano la violazione dell’art. 10(1) dell’Energy charter treaty (Ect), cui anche l’Italia ha aderito (e ne è uscita nel 2015, ma con effetto dal 2035), in forza del quale ogni Stato si impegna a tutelare gli investitori assicurando condizioni normative eque, favorevoli e trasparenti. Ogni Stato aderente si è obbligato a non porre in essere misure irragionevolmente discriminatorie o svantaggiose.

Per quanto riguarda i casi che coinvolgono l’Italia con riguardo al decreto Spalma incentivi (dl 91/2014), gli investitori contestano solo la violazione del legittimo affidamento e la violazione della Umbrella clause (art. 10(1) Ect). Gli investitori affermano che il diritto agli incentivi si sarebbe tradotto in veri e propri contratti di diritto privato (art. 24, comma 2, lett. d, d.lgs. 28/2011), in forza dei quali lo Stato italiano avrebbe assunto verso gli investitori una obbligazione contrattuale a non mutare per un periodo di venti anni la misura della tariffa incentivante.

I tribunali arbitrali, finora, si sono espressi in modo variegato, prendendo posizioni anche diverse rispetto a casi identici. Se da un lato è principio pacifico che l’art. 10(1) dell’Ect non impone l’immutabilità del quadro regolatorio né può essere interpretato come una rinuncia dello Stato a esercitare il potere legislativo, dall’altro i tribunali arbitrali tendono a interpretare in modo variegato lo standard del Fair and equitable treatment standard (Fet), che include l’obbligo per lo Stato di non ledere il legittimo affidamento (legitimate expectations) degli investitori stranieri.

Tale principio si risolve in tre condizioni.

(a) Perché gli interventi regolatori degli Stati non siano considerati lesivi del principio del legittimo affidamento è essenziale verificare che siano stati prevedibili (predictability) da parte di un investitore prudente e accorto.

(b) Le modifiche devono essere non arbitrarie o radicali (reasonableness). Cosa che accade quando gli interventi regolatori sono lesivi dello standard della ragionevolezza, perché introducono modifiche del regime economico arbitrarie o così radicali da pregiudicare in modo significativo l’investimento e una fair remuneration dello stesso.

(c) Infine, devono essere proporzionali rispetto al pubblico interesse perseguito dalla modifica regolatoria (proportionality). Cosa che accade nel caso in cui un intero regime tariffario è eliminato o sostituito da una regolazione che non ha precedenti o contraddittorio con il precedente.

Il quadro si è complicato con l’intervento della Commissione europea e poi confermata dalla Corte di giustizia con la pronuncia Achmea, secondo la quale il rimedio degli arbitrati non sarebbe esperibile tra imprese e Stati Ue. Con la conseguenza che i tribunali arbitrali non potrebbero più decidere su vicende intra-Eu e i giudici europei dovrebbero annullare i lodi laddove l’investitore tentasse di darne esecuzione sul territorio europeo.

A tale presa di posizione, i tribunali arbitrali hanno opposto a oggi resistenza, confermando la loro giurisdizione e rifiutando di interrompere le procedure arbitrali in corso. Per tutta conseguenza, il 15 gennaio, 22 Paesi Ue (fra cui l’Italia) hanno adottato una dichiarazione congiunta, per mettere la parola fine agli arbitrati in materia di investimento nello spazio giuridico europeo e hanno intimato ai propri investitori di non avviare nuovi arbitrati intra-Eu. Con la stessa dichiarazione, i 22 Paesi si sono impegnati a recedere, entro il 6 dicembre 2019, dai trattati di investimento in vigore fra Stati Ue.

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