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Servono nuove mappe per orientare il Paese sulle rotte del digitale

L’esperienza di tutti i giorni e il senso comune ci insegnano che il quadro dei diritti, individuali e collettivi, sta profondamente cambiando sotto l’influenza delle innovazioni tecnologiche.

di Giorgio De Rita, Giusella Finocchiaro e Oreste Pollicino

Essenziale. L'accesso alla Rete è sempre più un diritto

5' di lettura

L’esperienza di tutti i giorni e il senso comune ci insegnano che il quadro dei diritti, individuali e collettivi, sta profondamente cambiando sotto l’influenza delle innovazioni tecnologiche. Un quadro variegato e complesso, in cui entrano in gioco fattori molto diversi tra loro e nel quale orientarsi è tutt’altro che facile. Ogni giorno si consolidano e si amplificano diritti individuali, che la pandemia degli ultimi 2 anni ha messo drammaticamente in luce; allo stesso tempo si intersecano con questi e si ingarbugliano diritti collettivi che l’innovazione tecnologica da un lato assicura e dall’altro comprime.

Difficile dire, in modo ordinato e convincente, se e in quale misura i grandi processi di trasformazione, indotti nella società italiana dalle tecnologie e dai processi digitali, determinano nuove gerarchie sociali e culturali e nuovi fenomeni di mobilità professionale, economica e culturale. In altre parole se il modello di sviluppo digitale che da tempo abbiamo sotto gli occhi è motore di un progressivo miglioramento dei diritti fondamentali della persona umana. O se, al contrario, le complessità intrinseche delle piattaforme digitali contribuiscono a una crescita dei divari sociali e delle diseguaglianze.

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Alcuni segnali e qualche breve considerazione aiutano a definire il problema e a innescare una riflessione sulla quale sarà opportuno ritornare più volte, attraversandola nelle diverse direzioni e ripensandone i fondamenti.

Una ricerca del 2021 condotta dal Censis con il contributo di Windtre riporta, ad esempio, che per l’86,3% degli italiani la connettività a Internet sia ormai da considerare un diritto fondamentale delle persone, come la tutela della salute, il diritto all’istruzione, l’accesso alla pensione per la vecchiaia o di inabilità, la sicurezza sui luoghi di lavoro. Un diritto che va garantito a tutti, ovunque, comunque. La carenza di connessione, insieme alle difficoltà tecnologiche e culturali per l’uso dei nuovi media, non solo impedisce l’esercizio di tanti diritti ma diventa, di per sé, la violazione di un diritto essenziale. La tecnologia è certamente un abilitatore di diritti, ma come parte irrinunciabile della qualità della vita e della crescita umana e professionale è essa stessa un diritto.

Un diritto non facile da garantire e una pretesa difficile da esercitare, soprattutto nel nostro Paese dove reti e imprese sono in concorrenza tra loro, dove lo Stato non riesce ad architettare un sistema unico, come è ad esempio per l’elettricità, dove la pubblica amministrazione digitale partita in anticipo su tanti altri Paesi avanzati sembra arenata in un ritardo di sviluppo che ogni giorno si fa più ampio.

Inoltre il diritto all’innovazione e allo sviluppo tecnologico, sancito dalla Carta costituzionale quando attribuisce alla Repubblica il compito di promuovere la ricerca scientifica e la tecnica, non riguarda solo la sfera individuale dei fruitori delle nuove tecnologie, diventa diritto delle imprese a innovare e a innovarsi nel rispetto delle tutele fondamentali, alla salute, alla conservazione dell’ambiente, alla sicurezza, alla protezione dei dati personali, all’oblio. Il singolo individuo gode, dunque, di un diritto come utilizzatore delle nuove tecnologie, e allo stesso tempo promuove e intercetta diritti anche come parte della comunità nella quale vive e lavora.

Nel 2° Rapporto sul valore sociale della connettività, presentato dal Censis e da Windtre qualche giorno fa, viene confermata la paura degli italiani verso le minacce della rete. Il 56,6% della popolazione italiana teme i rischi per la sicurezza informatica in occasione di acquisti on line, il 34,7% vede conseguenze negative per i minori nell’accesso alle informazioni in rete, il 22% degli italiani vedono come serio il rischio degli odiatori tecnologici, pochi italiani mostrano, al momento, sensibilità verso l’impatto ambientale delle grandi piattaforme e dei data center.

La positiva percezione di valore della cosiddetta digital life e del diritto alla connessione si lega a crescenti paure sui rischi connessi alle innovazioni tecnologiche, l’irrinunciabile, oramai, diritto all’essere sempre connessi si coniuga con la domanda di una protezione e una sicurezza pressoché assolute.

Sul primo fronte, il diritto alla connessione, gli italiani sembrano reagire con una sorta di autotutela. Si moltiplicano le modalità e i dispositivi di accesso alla rete, linee fisse e mobili, pc, tablet e cellulari, abbonamenti a piattaforme diverse, richieste di aiuto per difetto di competenze digitali ad amici, colleghi, parenti. Una logica e un approccio combinatori che moltiplicando accessi e contenuti supportano l’empowerment individuale e riducono le fonti di diseguaglianza. Le paure di oligopolismo dei grandi attori multinazionali si stemperano nella convinzione che si vadano ampliando le opportunità e che ogni nuovo accesso in rete favorisce i diritti e la democrazia.

Sul secondo fronte, il diritto alla sicurezza, molto resta da fare e gli italiani si affidano agli operatori di rete e alle pubbliche amministrazioni. Ai primi spetterebbe la responsabilità di garantire sicurezza e affidabilità tecniche, alle seconde il dovere di un tutti dentro che è ancora di là da immaginare. Il 57,1% degli italiani guarda con favore al 5G perché garantirà sicurezza e continuità di connessione, il 28% non sa di cosa si parla, il 14,9% è contrario. Gli utenti della amministrazione digitale si aspettavano un salto di qualità che ancora non si vede e vedono nella Pa elettronica gli stessi difetti di quella tradizionale. In entrambi i casi se si va diffondendo la convinzione che le tecnologie rappresentano un miglioramento netto della vita e dei diritti individuali non altrettanto può dirsi della consapevolezza di un diritto collettivo. Che non è, e non può essere, puro frutto di un automatismo tecnologico.

Viviamo in un mondo che sempre più adotta il suffissoide cyber per indicare ogni genere di automatismo nelle relazioni tra persone e macchine, tra la l’azione intrapresa da un chip e l’intenzione dell’intelligenza umana, tra la cultura che immagina e realizza la vocazione di progresso e di civiltà e la tecnologia che costruisce i contorni in cui tale progresso si realizza. Dal cybercafé alla cyberguerra, dalle cyberminacce ai cyberlibri molto del linguaggio che propone uno sguardo verso il futuro è costruito attorno alla parola cibernetica, coniata nei primi anni cinquanta dal termine greco che nomina l’arte del timoniere.

Il timoniere però non solo segue una rotta, prima e di più immagina un viaggio e si dota delle mappe e delle informazioni per condurre la nave, specie nell’imprevisto e nell’inatteso. La nostra società riuscirà a governare anche la cibernetica dei diritti, individuali e collettivi, se sarà capace di guardare al futuro con occhi diversi e parole nuove, se saprà attrezzarsi nel linguaggio, nella cultura, negli strumenti di bordo, nella disciplina che il viaggio impone. Senza asservimenti e senza eccessivi timori.

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