Sessant’anni fa il primo uomo in orbita: Gagarin inaugurò la corsa allo spazio
L’Unione Sovietica confermò la supremazia spaziale, ma il lancio, finito fortunosamente, tirò la volata allo sbarco americano sulla Luna
di Leopoldo Benacchio
I punti chiave
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Furono una mucca e due contadini sovietici, madre e figlia pare, i primi testimoni, certamente allibiti, di quello che fu il primo atterraggio di un astronauta dallo spazio: Yuri Gagarin. Era il 12 aprile del 1961, 60 anni fa, e il luogo era una fattoria, un kolkoz vicino alla città di Engels, nel sud ovest della Russia, a poche centinaia di metri da un'ansa del grande fiume Volga, dove il nostro prode rischiò di finire e annegare sicuramente.
Le prime parole uscite dalla sua bocca furono: «Sono sovietico, sono volato nel cosmo, devo telefonare a Mosca», disse armeggiando con il paracadute, un po' per rincuorare i poveretti che non vedevano altro che bestiame, stalle e campi da quando erano nati in quel paesello, ma anche per rincuorare sé stesso, dato che negli ultimi cento chilometri di discesa verso terra se la era vista brutta.
Difficile sapere come fu effettivamente la fine di quel primo volo umano nello spazio, che cambiò le carte in tavola e diede l'avvio all'era della “conquista umana” dello spazio, come si diceva allora in modo piuttosto aggressivo rispetto agli standard attuali. La versione definitiva si seppe infatti nei suoi particolari solo nel 1991, dato che i sovietici di allora, maestri nel raccontare le cose a modo loro, sostennero per 30 anni che era stata la navicella, Vostok 1, a toccare il suolo, con dentro l'astronauta, probabilmente perché temevano di perdere l'omologazione di questo eccezionale record.
Ma non fu così: la navicella si stava avvicinando al suolo troppo velocemente e il prode Gagarin si era fatto espellere dalla sua gabbia cosmica per percorrere l'ultimo tratto, 7.000 metri, grazie a un tradizionale ma confortevole paracadute.
«Pianeta azzurro, nero lo spazio»
Tutto previsto? Forse, ma è poco importante. Il fatto veramente incredibile fu che quel piccolo contadino russo, 1 metro e 57 centimetri, che aveva fatto mille mestieri prima di entrare come allievo pilota nell'aereonautica sovietica, era uscito dall'atmosfera, solo 290 chilometri circa dal suolo, ma comunque abbastanza da entrare in orbita.
Quel 12 aprile 1961 il volo era iniziato alle 9,07 di mattina, ora di Mosca, con partenza dalla base, allora segreta, di Baikonur nell'attuale Kazakhstan e terminò appena dopo un'ora e 48 minuti, nel modo che abbiamo appena detto.
L'orbita percorsa, diversa da quella prevista, lo portò fra i 175 ed i 302 chilometri dal suolo a una velocità di oltre 27.000 chilometri ora, oggi roba da turismo spaziale per milionari appassionati di avventura, prestazioni incredibili per il tempo.
Fu lui comunque che, al di là delle frasi inventate come la famosa «Non ho visto nessun Dio nel cielo», vide per la prima volta il nostro pianeta che è «azzurro, ma poi lo spazio è nero», come disse più volte.
Lo vide dalle tre finestre, piccoli oblò, di cui era dotata la massiccia Vostok-1, Oriente – 1, una capsula composta dalla parte abitativa vera e propria e da un modulo di servizio, che avrebbe dovuto staccarsi in discesa ma purtroppo non lo fece, mettendo a serio rischio la fine della missione.
Quasi 5 tonnellate, nella migliore tradizione di solidità russa con 4.5 metri di lunghezza, un mezzo notevole che poi, perfezionato, portò nello spazio anche l'alter ego di Gagarin, Leonov che, all'ultimo momento, fu lasciato in panchina per il primo volo in favore di Yuri.
Indicibile lo stupore che attraversò il mondo occidentale, quello dalla parte “buona” del muro, che vide i diavoli sovietici, come gli americani, compresi i Presidenti di allora, vedevano l'emisfero comunista del mondo.
Gagarin veniva dopo il primo satellite, lo Sputnik, una palla di acciaio che solamente emanò per ore e ore un bip bip dallo spazio, segnalando però che i razzi vettori sovietici potevano portare micidiali atomiche in tutto il globo in poche decine di minuti.
Poi c'era stata la Luna, il viaggio verso l'altra faccia, che anche sollevò meraviglia, i viaggi spaziali dei cani Laika, che non tornò, e Belka e Strelka che fecero ben 18 orbite nel 1960.
Gagarin poi aprì la strada a Valentina Tereškova, la prima donna mai andata nello spazio nel 1963.
Una supremazia assoluta
Fu lui, insomma, ad aprire la strada del futuro, anche per quella che da qualche anno chiamiamo New Space economy. Tornato a terra, ebbe onori e notorietà come neppure Ulisse al ritorno a Itaca, portato in trionfo in Unione Sovietica, ma anche nel continente americano, come una icona del comunismo e del fatto che, a differenza del capitalismo, portava a grandi benefici per l'umanità intera.
«Un uomo sovietico ha vinto lo spazio», titolerà L'Unità, allora organo ufficiale del Partito Comunista Italiano, un titolo che trasuda oggi una prosopopea che portò quell'enorme impero sovietico a sciogliersi come neve al sole.
Per la verità storica, dobbiamo dire che gli americani inghiottirono talmente amaro - erano pronti anche loro a spedire dopo qualche mese un uomo nello spazio -, che misero in cantiere la più importante riscossa della storia, che li portò a far scendere i loro astronauti sulla Luna.
Anche in questa fase post volo si sprecano le leggende metropolitane che lo vedono, verosimilmente, conteso in avventure sentimentali non proprio profonde, eccessi nell'alcol e problemi col Kgb, il servizio segreto sovietico che a un certo punto lo “consiglia” di tornare in Urss da Cuba, dove Gagarin ebbe qualche problema.
Ritornerà dopo poco al suo lavoro super specializzato: il collaudatore di aerei sperimentali della serie Mig. Morirà per un incidente in volo, a causa della manovra azzardata di un aereo partner nel volo, anche se per molto tempo si sospettò un'imboscata del solito Kgb, per cui Gagarin era diventato piuttosto ingombrante.
Quel 27 marzo 1968, comunque, a 34 anni Yuri Gagarin morì in volo, come forse avrebbe sempre voluto, ma entrò nella leggenda, spezzando la maledizione di Icaro e dimostrando che il nostro destino è, anche, andare sempre avanti e sempre più in alto.
Forse le parole più belle le scrisse allora l'amatissimo scrittore, giornalista e cronista sportivo Gianni Brera: «Era stato il primo messaggero degli uomini nel cosmo: l'eroe che esprimeva l'ansia di tutti noi, improvvisamente umiliati dalla pochezza del nostro mondo. Quando un grande eroe perisce, l'uomo appena degno di questo nome sente ingroppirsi la gola. Non valgono parole a celebrarlo. Tanto meno le parole di un umile artigiano della penna».
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