Sfida globale per abbattere recinti e scoprire talenti
La storia ha sempre suscitato l’interrogativo: quanti Giotto esistono che non incontrano casualmente un Cimabue e rimangono pastorelli?
di Giovanni Tria
7' di lettura
Quando ero bambino, negli anni 50, ci raccontavano la storia di Giotto e Cimabue. Forse la raccontano ancora ai bambini. Cimabue, un affermato pittore, diceva la leggenda, notava un pastorello di nome Giotto che disegnava un cerchio perfetto e lo prese come allievo nella sua bottega d’arte. Giotto divenne così il più famoso pittore del tempo (siamo nel tredicesimo secolo). A noi bambini la storia rimaneva impressa perché usavamo i famosi pastelli di marca Giotto sulla cui scatola era raffigurata appunto la storia di Giotto (questi pastelli si usano ancora). La storia ha sempre suscitato l’interrogativo: quanti Giotto esistono che non incontrano casualmente un Cimabue e rimangono pastorelli? Non siamo in grado di rispondere, ma sappiamo dal calcolo probabilistico che più è grande il numero di pastorelli più è possibile che ci siano tra loro altri talenti come Giotto. Naturalmente avremmo bisogno di tanti Cimabue per individuarli e sfruttarli per il bene dell’umanità. Oggi, come anche ieri, il compito di Cimabue è affidato alle scuole di ogni ordine e grado, cioè all’istruzione. In generale, maggiore è il numero di persone che entrano in un sistema di istruzione di alta qualità (Cimabue era al tempo un caposcuola, non un pittore di scarso talento), maggiore è il numero di talenti che nei vari campi può venire alla luce e contribuire al progresso delle arti, della scienza e della tecnologia. Ma la leggenda di Giotto ci spiega anche il valore della demografia. Perché più è ampia la popolazione in cui Cimabue, cioè l’istruzione di qualità può arruolare allievi, più talenti e geni saranno all’opera e maggiore sarà il progresso scientifico e tecnologico.
Il primato tecnologico americano si è alimentato nelle sue università e centri di ricerca civili e militari attingendo a “pastorelli” che venivano da tutto il mondo. La sua popolazione non bastava evidentemente come vivaio di futuri campioni. Le università americane più prestigiose erano, ancora sono e speriamo che rimangano, il simbolo e la rappresentazione del valore della globalizzazione. Ma la storia di Giotto e Cimabue spiega anche buona parte dell’impressionante crescita della Cina, oggi seguita dall’India e da altri Paesi emergenti, e perché essa sia ormai in molti campi ai vertici della scienza e del progresso tecnologico, contendendo il primato agli Stati Uniti. Non si tratta solo di importazione di tecnologia o, come dicono alcuni, di sottrazione di tecnologia all’Occidente. Al fondo della dinamica c’è il fatto che man mano che la Cina ha avuto a disposizione risorse per ampliare l’istruzione, investendo in Università, che oggi sono ai vertici dei ranking internazionali, e in centri di ricerca, essa ha potuto sfruttare il vantaggio di poter selezionare talenti da un’immensa popolazione. Questi vantaggi demografici di un Paese possono andare a beneficio di tutta l’umanità se viene conservata la libera circolazione del progresso scientifico e tecnologico e delle sue applicazioni in tutti campi. La Cina ha certamente beneficiato della tecnologia occidentale (così come l’India) ma oggi, in tutti i campi, anche l’occidente beneficia di tecnologia endogena cinese e ne potrebbe beneficiare maggiormente in futuro. D’altra parte, gli stessi benefici potranno venire dalla riduzione
della povertà e dalla diffusione dell’istruzione di alta qualità in altri Paesi emergenti dove vive gran parte della popolazione mondiale. Questa
è la sfida globale che abbiamo di fronte.
Ma se i pascoli vengono recintati e ogni Paese si tiene i suoi pastorelli, i suoi Cimabue e i suoi geni, geloso che altri Paesi ne possano approfittare condividendone i vantaggi per competere in modo ostile, allora è inevitabile che chi ha più pastorelli nel recinto alla fine prevalga. Chi oggi in Occidente pensa che sia conveniente alzare recinti per conservare qualche primato in qualche tecnologia, si deve porre la domanda su chi è dentro e chi è fuori del recinto. Se gran parte del mondo è dall’altra parte del recinto rispetto a dove sei tu, vuol dire che dentro il recinto ci sei tu. E in prospettiva non ti conviene, checché ne pensino gli esperti di sicurezza nazionale. Non puoi evitare che una parte crescente dell’innovazione non emerga dove c’è la parte più numerosa dell’umanità, a meno che la strategia non sia quella
di impedire la sua istruzione e la sua crescita di base. Naturalmente, l’istinto di difesa che porta ad alzare recinti non è oggi solo caratteristica dell’occidente e non proviene solo dalle grandi potenze.
Perfino l’Italia, che ha tutto l’interesse a tenere aperti i propri confini per commerci di beni, idee e tecnologie, sembra a volte più preoccupata di difendere ciò che ha, piuttosto che attirare in Italia ciò che non ha. Il problema non è se troppi Cimabue cinesi o americani vengono in Italia a prenderci i nostri Giotto, il problema è mandare i nostri Cimabue, cioè le nostre imprese, ad esplorare tra i ben più numerosi pastorelli cinesi o americani. Il tema non deve essere quello di chiudere le nostre porte ma di aprire maggiormente quelle altrui. Anche il golden power con il quale lo Stato può bloccare acquisizioni estere è uno strumento da utilizzare con cautela, per casi specifici. Non è uno strumento di politica industriale, soprattutto quando il resto del mondo può utilizzarlo in risposta contro di noi e quando il resto del mondo è tanto più grande di noi.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
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