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“She Came to Me”, un compositore in crisi creativa apre la Berlinale

Il nuovo film di Rebecca Miller è stato scelto come titolo inaugurale del Festival tedesco. Protagonisti Peter Dinklage e Anne Hathaway

di Andrea Chimento

3' di lettura

Apertura in tono minore per la Berlinale 2023: la 73esima edizione del Festival tedesco è stata inaugurata da “She Came to Me”, nuovo film di Rebecca Miller con protagonisti Peter Dinklage e Anne Hathaway.
Presentato all'interno della sezione Berlinale Special Gala, il film è stato anticipato da una cerimonia in cui è intervenuto anche il presidente ucraino Volodymyr Zelenski in collegamento video.
Il film si apre raccontando la crisi creativa di Steven Lauddem, un grande compositore che non riesce a trovare la chiave giusta per iniziare a scrivere la sua prossima opera lirica. La moglie Patricia, psicologa, gli suggerisce di uscire di casa insieme al suo cane per avere la giusta ispirazione: Steven ci crede poco, ma ciò che troverà ad aspettarlo andrà ben oltre la sua pur fervida immaginazione.

Sesto lungometraggio per il cinema scritto e diretto da Rebecca Miller (figlia del celebre drammaturgo Arthur e della grande fotografa Inge Morath), “She Came to Me” è un film che racconta problematiche psicologiche di vario genere, che però finiscono presto per risultare meno interessanti e profonde di quanto si vorrebbe far credere.

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Attraverso un piglio intellettualoide, l'autrice cerca di scandagliare gli animi dei tanti personaggi in scena, ma questi non sono sempre scritti con la corretta attenzione e gli incroci tra le varie vicende non sono sempre equilibrati al punto giusto.

Un film sugli Stati Uniti che non riesce a scuotere

L'idea alla base della sceneggiatura è interessante e si coglie come in questo copione ci siano tanti riferimenti agli Stati Uniti di ieri e di oggi, divisi per situazioni economiche e ancora segnati dal razzismo imperante.Alla vicenda di Steven, si incrocia quella che vede protagonista suo figlio adottivo, un adolescente di diciott'anni che si innamora, senza saperlo, della figlia della domestica di casa: da questo spunto si sviluppa una sorta di “Romeo & Giulietta” in epoca contemporanea, che però fatica a incidere come dovrebbe.In questa commedia con ambizioni politiche, ma incapace di scuotere, gli spunti iniziali sono più efficaci della resa effettiva e non basta qualche bella sequenza in fase di scrittura per poter alzare il livello complessivo

.È un limite che si trova anche in diverse altre pellicole precedenti della sua autrice, a partire da “La storia di Jack & Rose” e “Il piano di Maggie”.Notevoli però le scelte musicali, a partire dalla canzone “Addicted to Romance”, scritta appositamente da Bruce Springsteen per questo film.

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La Sirène

All'interno della sezione Panorama ha invece trovato spazio “La Sirène”, nuovo film della regista iraniana Sepideh Farsi. Dopo un passato da documentarista, l'autrice è passata al cinema di finzione ma con uno sguardo sempre concentrato sul raccontare la realtà. È così anche in questo caso, attraverso la scelta di utilizzare un'animazione che diventa un modo efficace per empatizzare ancora di più con la vicenda raccontata: siamo in Iran nel 1980, quando un attacco missilistico iracheno getta nel caos la città di Abadan.Omid ha quattordici anni e si troverà catapultato in una situazione tanto drammatica quanto inattesa: il ragazzo inizierà una ricerca del fratello scomparso e allo stesso tempo dovrà cercare una via di fuga dalla città assediata.

Prendendo il punto di vista di un giovane che combatte per la sopravvivenza sua e della sua famiglia, il film racconta il sanguinoso conflitto in maniera allo stesso tempo meticolosa e coinvolgente: c'è molta attenzione ai dettagli visivi e narrativi, grazie a un copione in cui ogni parola è pesata nel modo giusto.

Il film opta per un'animazione minimalista che segue la scia di tante pellicole, incentrate su conflitti mediorientali, che hanno scelto questa strada per raccontare le pagine più drammatiche del loro paese: da “Valzer con Bashir” dell'israeliano Ari Folman a “Persepolis” dell'iraniana Marjane Satrapi, fino al recentissimo “Flee”, documentario d'animazione firmato dal regista danese Jonas Poher Rasmussen incentrato su Amin, un uomo che ripercorre la sua vita e, in particolare, la sua infanzia nella Kabul degli anni Ottanta.

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