Shipping, il piano green impone agli armatori un costo extra di 8 miliardi
Percorso in salita perle riduzioni delle emissioni nel settore. Non è ancora stato individuato un carburante in grado di sostituire con efficacia quello tradizionale
di Raoul de Forcade
4' di lettura
Il mondo dello shipping è alle prese con una delle più grandi rivoluzioni nel campo della propulsione dai tempi del passaggio dalle vele ai motori. La transizione green, con le regole dettate prima dall’Imo (International maritime organization) e poi inasprite dall’Ue, sta infatti ponendo una serie di problemi estremamente complessi, e con soluzioni onerose, agli armatori. La carbon tax per il settore, prevista dal 2025, si calcola che imporrà costi aggiuntivi alle navi che toccano i porti europei pari a complessivi 7-8 miliardi di euro (800-900 milioni per l’Italia). Ma il problema più grave è che «a oggi un armatore non sa come far costruire una nave nuova», spiega Mario Mattioli, presidente di Confitarma e della Federazione del mare, perché non è stato ancora individuato un carburante in grado sostituire efficacemente quello tradizionale garantendo, al contempo, l’abbattimento richiesto delle emissioni inquinanti in atmosfera; questo, in particolare, per quanto riguarda le navi che fanno lunghe tratte oceaniche e che hanno bisogno di grande autonomia di propulsione.
L’Imo, nella sua strategia iniziale del 2018, ha fissato entro il 2050 una riduzione delle emissioni annuali di gas serra di almeno la metà rispetto al loro livello del 2008 e una riduzione dell’intensità di carbonio di almeno il 40% entro il 2030, per arrivare al 70% entro il 2050 sempre rispetto al 2008. La commissione Ue ha previsto limiti ancor più stringenti con il pacchetto Fit for 55. Ma l’Unione europea ha anche inserito lo shipping nell’Ets (Emission trading system), a partire dal 2025. «L’Ue, insomma - afferma Mattioli - ci chiama a pagare la tassa sulla decarbonizzazione dal 2025 con base i consumi 2024; in pratica, se un armatore emette 100, paga la tassa sul 40% delle emissioni il primo anno (2025 su 2024), sul 70% il secondo anno (2026 su 2025) e sul 100% il terzo anno (2027 su 2026). Le nostre emissioni sono monitorate dagli enti di classifica e immaginando una carbon tax con crediti di carbonio pari a circa 92-95 euro a tonnellata, già sappiamo quale sarebbe l’aggravio sulla flotta: dal 2025, nell’arco di tre anni, andremo ad avere costi di 7-8 miliardi in più, di cui 800-900 milioni per l’Italia, a valere sulle navi che fanno almeno una toccata in Europa».
Il punto è, continua Mattioli, «che ci troviamo in un paradosso kafkiano perché, a fronte della volontà dello shipping di abbattere al massimo le emissioni, attualmente non esiste ancora una vera a propria soluzione industriale al problema; quindi, dal 2025, pagheremo questa sorta di multa, sotto forma di certificati di decarbonizzazione, per un comportamento che, però, non siamo in grado di cambiare. È il più grande mal di testa che abbiamo da decenni a questa parte, al di là delle varie crisi. Peraltro, il trasporto, in generale, ha emissioni pari a circa il 25% di quelle globali in atmosfera. Di queste, lo shipping rappresenta solo il 3%, mentre il gommato ha emissioni sei volte più alte e, curiosamente, comincerà a pagare nel 2028, su base 2027».
In effetti, il settore è affannosamente alla ricerca di carburanti o tecnologie di propulsione a basse emissioni. Quella dello shipping, prosegue Mattioli è «un’industria hard to abate, con navi che fanno tragitti molto lunghi e la necessità, visto che non possono essere elettrificate, di avere un’autonomia di carburante a bordo che consenta di colmare queste distanze. E oggi non esiste ancora una soluzione. I biocarburanti, utilizzati per il settore aereo, non sono in quantità sufficiente per poter supplire anche al comparto navale. L’elettrificazione delle banchine, od onshore power supply (Ops), che in Italia chiamiamo cold ironing, potrà consentire di ridurre l’inquinamento solo per quanto riguarda le operazioni concentrate nei porti. Ma sono pochissimi gli scali in grado di offrire questo servizio. Per quanto riguarda i carburanti, le soluzioni al vaglio sono diverse: ci sono ammoniaca e idrogeno, che però, al momento, non sono considerate industrialmente percorribili. Un’altra è il metanolo, che alcune importanti realtà armatoriali stanno sperimentando. La verità è che non esiste ancora una soluzione definitiva e quello che sembrava essere il toccasana, cioè l’utilizzo del Gnl come carburante di transizione, oggi non è più considerato così valido, ad esempio per il prezzo. Per ammonica, idrogeno e metanolo, poi, ci sono seri problemi rispetto al quantitativo da utilizzare per generare l’elettricità di cui una nave ha bisogno. Già sappiamo che il Gnl ne crea meno, per metro cubo, del carburante fossile; quindi se ne deve usare di più. Se andiamo sull’ammoniaca, poi, il fattore di conversione è ancora più basso, meno della metà del Gnl , e per l’idrogeno è ancora meno. Ci vogliono, dunque, depositi molto più grandi per generare quell’autonomia che le navi devono avere, soprattutto se si parla di unità oceaniche. I produttori di motori, intanto, stanno realizzano navi con sistemi di propulsione dual, tri o penta fuel. E attualmente, per la maggior parte, funzionano anche con combustibile fossile».
loading...