Si fa presto a dire Smart! È un tema di (ri)organizzazione del lavoro
Lo smart working va progettato e gestito: sarebbe un grave errore pensarlo come uno strumento attraverso cui semplicemente si lavora da casa
di Barbara Imperatori *
5' di lettura
In questa pandemia la possibilità di lavorare da casa ha aiutato sia le imprese che le persone a proseguire le proprie attività in sicurezza, preservandoci da enormi rischi socio-sanitari. Per molti è stato anche un modo per continuare a sperimentare una routine quasi normale, impegnando e investendo tempo ed energie in attività note o sfidanti, rispondendo così a bisogni di sicurezza o sviluppo. Per le imprese è stata una soluzione per non chiudere, portare avanti progetti, commesse e attività. Per tutti è stato sicuramente un momento importante di apprendimento.
Chi aveva già cominciato a sperimentare forme flessibili di lavoro a distanza ha potuto in questi mesi trarre maggior beneficio dai passi fatti, gli altri si sono adeguati. Tutti abbiamo sperimentato una possibilità che ha messo in discussione i tradizionali concetti di spazio e tempo di lavoro. L’esperienza non va sprecata… ma non chiamiamolo smart working e non perdiamo l’eccezionale opportunità di riorganizzare il lavoro e di ripensare alla relazione tra lavoratori e organizzazione dopo l’epidemia di Covid-19.
Lo smart working, o lavoro agile, è prima di tutto un approccio innovativo all’organizzazione del lavoro che si contraddistingue per la flessibilità (l’agilità, appunto!) e l’autonomia nella scelta di spazi, tempi e strumenti e che prevede una valutazione delle performance sulla base dei risultati raggiunti. Il lavoro agile si fonda, dunque, su una serie di premesse che oggi, nostro malgrado, non possono proprio essere soddisfatte. Mancano la flessibilità e l’autonomia nella scelta degli spazi e dei tempi, e spesso manca anche la valutazione sulla base dei risultati, perché l’organizzazione del lavoro di molte imprese semplicemente non lo prevede.
Le esperienze di successo, anche in Italia, ci sono. Siemens Italia già nel 2009 ha avviato un progetto di agile working su sollecitazione della casa madre e in accordo a un piano strategico che si prefiggeva di dare valore alla sostenibilità del business e di rivedere l’uso degli spazi di lavoro. A questa esperienza ne sono seguite altre che, non a caso, hanno affiancato spesso anche il ridisegno degli spazi urbani. Gli studi organizzativi e le esperienze aziendali dimostrano che lo smart working va progettato e gestito perché sarebbe un grave errore pensarlo come uno strumento per tutti e per sempre, attraverso cui semplicemente si lavora da casa. Anzi il cosiddetto telelavoro ha dimostrato in passato che lavorare da casa, con orario fissato e senza autonomia si trasforma spesso in una esperienza frustrante per il lavoratore e in costi per l’organizzazione.
Lo smart working richiede invece un profondo ripensamento dell’organizzazione dei tempi, spazi e modi di lavoro e delle basi su cui si fonda la relazione tra lavoratore e impresa. Innanzitutto è una rivoluzione culturale che come tale richiede una regia, delle risorse e delle competenze specifiche. I capi devono imparare a delegare per obiettivi, valutare i risultati e non controllare i comportamenti, organizzare il lavoro dei propri collaboratori in modo che sia chiaro cosa è possibile svolgere a distanza e cosa invece richiede presenza.
Significa poi avere ben chiaro che i collaboratori hanno esigenze differenti in ragione del loro ciclo di vita professionale e delle rispettive situazioni familiari. Anche i lavoratori devono però cambiare: il lavoro deve passare da «un luogo dove si va» a «qualcosa che si fa» e, come dimostra l’esperienza di questi mesi, è necessario imparare nuovi modi di lavorare, ripensare in maniera autentica alle proprie modalità di lavoro entro un disegno più ampio di vita e comunicare in maniera trasparente con capi e colleghi in una relazione di reciproca fiducia: pretendendola, ma anche offrendola.
L’epidemia di Covid-19 ha sicuramente accelerato questi processi e sia capi che collaboratori ci hanno provato e ne hanno sperimentato fattibilità e potenzialità insieme a fatiche e rischi. Ora però è il turno delle imprese, che devono accompagnare questo cambiamento dando senso e valore agli sforzi. Seppur in uno scenario drammatico, questa è un’occasione eccezionale per il tessuto socio-economico del nostro Paese che non è fatto di sole grandi imprese, che in larga parte avevano già avviato questi processi, ma anche e soprattutto di una straordinaria imprenditorialità diffusa che però, spesso, si è dimostrata riluttante e carente proprio nella progettazione organizzativa.
Cose serve dunque? Evidenze empiriche e solidi risultati di ricerca dimostrano che servono tre ingredienti: moderni modelli di organizzazione del lavoro, nuovi stili manageriali e rinnovate politiche di gestione delle risorse umane. Serve riorganizzare gli spazi di lavoro e i ruoli, se in ufficio ci andremo meno e dovremo garantire il distanziamento sociale, è necessario trovare soluzioni praticabili che diano valore alla presenza, solo quando necessaria. Serve ridisegnare le posizioni organizzative, ovvero contenuti, responsabilità e programmazione delle attività verso una minor centralizzazione, meno gerarchia e più ruoli e meccanismi di coordinamento orizzontali. Servono nuovi modelli manageriali caratterizzati da delega e capacità di gestione e sviluppo dei collaboratori, anche a distanza.
Servono, infine, nuovi sistemi di gestione delle risorse umane che possano accompagnare il cambiamento e sintetizzare i contributi di tutti in maniera allineata con la strategia. Tra questi ci sono le pratiche di formazione e sviluppo delle nuove competenze per i capi e i collaboratori, quelle digitali, ma anche quelle di negoziazione e gestione delle relazioni, di feedback, ascolto, di gestione del tempo, di autogestione e di gestione dell'equilibrio tra vita privata e lavorativa; i sistemi di valutazione e sviluppo della prestazione basata sui risultati; le pratiche di diversity management, che riconoscono e danno valore alle diverse caratteristiche delle persone secondo logiche di equità.
Lo smart working presenta infatti molti potenziali vantaggi, ma anche dei rischi che vanno prevenuti e gestiti. I vantaggi a livello sociale li stiamo in parte sperimentando: minore inquinamento, riduzione del traffico e degli spostamenti. A livello organizzativo i vantaggi immediati sono stati quelli di poter garantire continuità, ma abbiamo anche capito che tante cose che facevamo forse non servivano e abbiamo imparato a essere più efficienti, per esempio nelle riunioni virtuali, cominciando a ridisegnare i ruoli organizzativi.
Saper cogliere la sfida della riorganizzazione del lavoro in senso lato consentirebbe di capitalizzare questi vantaggi di valorizzarne molti altri tra cui essere un miglior datore di lavoro, in grado di attrarre e trattenere i talenti, migliorare il clima organizzativo, sviluppare il capitale umano, valorizzare le differenze, ridurre i costi ovvero, in sintesi, aumentare la produttività del lavoro. Infine, ci sono anche i vantaggi per i lavoratori (sia capi che collaboratori): una miglior conciliazione tra vita privata e lavorativa, autonomia, senso di contribuzione, autostima, sebbene oggi però sul tavolo ci siano prevalentemente solo i potenziali rischi: workaholism (la difficoltà di staccare), senso di solitudine, frustrazione, senso di inadeguatezza e perdita di controllo.
Eccola, dunque, la vera opportunità, quella smart che però richiede un cambiamento organizzativo. La flessibilità organizzativa e il lavoro agile non sono solo una esigenza temporanea. Sono uno stimolo alla ri-organizzazione del lavoro, essenziale per le imprese che vogliono migliorare la loro produttività, mantenere ampio il loro pool di talenti e affrontare con coraggio e in maniera sostenibile la sfida attuale, con attenzione, ai clienti, ai lavoratori e al territorio.
* Professore ordinario di Organizzazione aziendale e Direttore del Master in International HRM, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
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