Si sogna in bianco e nero, ma se accendi la luce, gli occhi ritrovano i colori
Un racconto inedito, una fiaba scritta in esclusiva per HTSI, che inizia sotto l’arco in miniatura del grande creativo Alessandro Mendini, in mostra ancora per una settimana a Milano.
di Letizia Muratori
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Mancano ancora pochi giorni per poter visitare la mostra “L'Età dei Metalli”, alla M77 Gallery, a Milano (aperta fino al 20 maggio). Questo è il racconto inedito di Letizia Muratori che comincia sotto un'opera di questo grande artista, poeta, progettista e designer.
Quello che più mi interessa è che l'oro, dai lontanissimi tempi della maschera di Agamennone fino a oggi, e dovunque, è un mezzo prezioso nelle mani dell'umanità, per creare piccoli simboli carichi di poesia e di memorie».
Le parole di Alessandro Mendini basterebbero da sole a commentare queste pagine: oro che non fa status, ma vale in quanto mezzo prezioso nelle mani dell'uomo.
Archetto – ovvero l'immagine che apre il servizio, una miniatura in bronzo dorato – è parte del progetto Short Stories di Mendini. All'eclettico maestro, che come pochi altri ha influenzato pratica e teoria del design moderno, è dedicata una mostra importante: L'Età dei Metalli. L'esposizione milanese curata da Stephan Hamel, con la partecipazione di Francesca Alfano Miglietti, è allestita negli spazi di M77 Gallery.
L'intenzione dei galleristi, Giuseppe Lezzi ed Emanuela Baccaro, è quella di far riflettere e di mostrare il tratto decisivo di Mendini. Decisivo, ma non tanto scontato, forse perfino inedito. Il suo obiettivo era infondere un'anima agli oggetti, senza sminuirne l'aspetto strumentale, esaltandone il carattere ludico. Per recuperare, in qualche modo, la perdita di mistero cui l'era industriale ha condannato l'universo delle cose.
Seguendo questa traccia mendiniana, sospesa tra animismo, gioco e opportunità, potrebbe venir fuori un racconto, appunto, una short story. L'incipit più immediato: varcare quella soglia silenziosa, l'archetto, per accedere a un mondo altro. Dunque che cosa ci attende oltre? Quali scoperte o quali conferme? Innanzitutto valutiamo il materiale esposto. C'è l'oro, ce n'è tanto. Oro inteso come mezzo e materia creativa, certo. Ma soprattutto c'è l'oro inteso come colore. Non credo sia riduttivo pensare alle forme che vediamo in queste pagine come sagome “pronte da colorare”. Osservandole, viene in mente quel gioco istruttivo e infantile in cui una forma si rivela tale solo quando la si riempie.
Ovviamente il sontuoso Apollo di Dolce&Gabbana è un tavolo, così come Archimedes' Twist di Vikram Goyal o il Bosco di Osanna Visconti sono due sofisticate console, mentre la Souffle di Hermès è la più fascinosa delle lampade eccetera eccetera. Eppure la loro forma, prima ancora che la loro funzione, è accesa dal colore. Questa specie di massimalismo cromatico trascende l'estetica, è qualcosa di organico e naturale, come il respiro in un corpo. Il colore accende, anima e rende vivo l'oggetto, in senso letterale. E l'oro è la più potente delle linfe.
Ricordo che da bambina uno dei miei massimi (e sadici) divertimenti era finire di “spellare” una coppia di poltroncine veneziane che perdevano frammenti dipinti. Mia madre le restaurava con un pennellino: passava sopra i punti più critici una cera liquida e collosa. Per qualche ora non bisognava assolutamente toccare quelle che sembravano ferite appena risanate.
A casa nostra tutti i mobili passavano un po' di tempo al pronto soccorso, di tanto in tanto necessitavano di cure, come qualsiasi altro essere vivente. Non erano macchine che si riparano perché devono funzionare, erano creature che si curano per alleviarne la sofferenza, rinfrescarne l'aspetto o frenarne il degrado. Mi stupiva che quelle ferite non sanguinassero, che non avessero nemmeno il sangue pallido delle piante. Eppure non erano asciutte, la cera collosa impastata allo stucco emetteva una luminescenza dorata.
Tornando alla dimensione narrativa, alla matrice ludica di quella famosa soglia da varcare, possiamo aggiungere che ai tempi in cui lo zucchero non era considerato il più insidioso dei veleni e Roald Dahl non era ancora stato censurato, capitava che a una nostra buona azione seguisse la promessa di un premio in caramelle e dolcezze varie: i divani da esterno di Joana Vasconcelos sarebbero da mangiare, ingolosiscono il bambino che è in ognuno di noi. In questo caso l'ispirazione cromatica viene dalle facciate pastello della vecchia Lisbona. Del resto, la fiaba ha sempre un che di edibile, dalle casette di marzapane a Willy Wonka: misteri e forme di vita che si scoprono con il gusto. Sempre seguendo il senso del gusto, e il peccato di gola, l'oro della poltrona Sponge di Edra è quello della carta da cioccolato: un oro pastoso che non luccica, ma contiene e riveste un tesoro. Forse più scrigno che bar, almeno nella prospettiva di questo breve racconto, è Hayama, il cabinet che Patricia Urquiola ha disegnato per Cassina: scrigno che si spalanca grazie a un semplice abracadabra.
E proprio la formula classica che attiva l'incantesimo dà il titolo a una mostra che mette in scena tutta la magia del vetro. Ideata da WonderGlass per la 61esima edizione del Salone del Mobile questa raccolta – Abrakadabra e un paio di meraviglie appaiono anche in queste pagine – punta sulla rappresentazione delle tre tecniche principali della lavorazione del vetro. Il filo conduttore è trovare un punto di equilibrio tra artigianato e innovazione, la cifra emotiva del progetto: vibrante. Per ottenerla, ancora una volta, è centrale il ruolo del colore.
Passati in rassegna gli elementi essenziali, gli oggetti di scena, veniamo alla short story ancora tutta da inventare: che cosa può accadere varcata la soglia dell'Archetto? Premesso che il gioco delle combinazioni è libero, e ognuno può, anzi, deve, inventarsi il proprio, a chi scrive verrebbe da raccontare un'avventura notturna.
Sono a Milano, è la fine di giugno, fa già un caldo satanico, di quelli in cui ci si addormenta con l'aria condizionata accesa, fregandosene delle conseguenze. Niente come quella bolla di umido e zanzare rende amorali. Finirà il mondo o domani sarò piena di dolori? L'amoralità non si muove su una scala di valori, è un terreno in cui i danni se la giocano alla pari. Non posso certo lamentarmi, sono finita nel letto comodo di una casa da sogno, non solo perché bella e preziosa, l'ambiente in cui sono ha i colori tipici del sogno: assorbono la luce come certi volti fotogenici. Decisamente onirica è anche la presenza di doppi, di multipli e di sproporzioni. Solo in sogno possiamo varcare un arco in miniatura per imbatterci in un tavolo monumentale e, a seguire, in un'unica poltrona che, come i divani del terrazzo e una gioiosa lampada da terra, sembrano usciti da una confetteria. Del sogno c'è quel clima ottimista che non prevede futuro, in cui si può nascondere l'incubo, ma è sempre imprevisto, qualcosa in cui si precipita.
Mi sono addormentata da qualche ora e all'improvviso, senza speranza alcuna di uscirne, mi ritrovo a bere e bere sorsi di niente, da bicchieri vuoti. Li provo tutti, tirandoli fuori da un mobile bar che ne contiene a decine. L'ultimo si rompe, o almeno credo, perché mi scivola via dalle mani e allora, di colpo, mi sveglio. Ho sete, il mio incubo era di natura fisiologica. Saranno le tre del mattino e sono sudata fradicia: per via dell'incubo? Non solo. Fa molto caldo, nella stanza non c'è aria condizionata, e anche la luce non si accende: è saltata la corrente, chissà da quando. Il telefonino è completamente scarico. Sono al buio, davanti a quel sipario nero che non si solleva appena apri gli occhi. Dopo un po' mi abituo alla penombra e comincio a distinguere qualche sagoma. Mi alzo, circospetta cerco di ricordare dove sono gli ostacoli. Mi basterebbe arrivare in bagno, ma sbaglio strada e mi ritrovo in salotto, dove inciampo in un coffee table: la luce proveniente dalla strada non lo ha intercettato e me lo ha tenuto nascosto. Il coffee table mi ha attaccato dal basso, come un animaletto.
Camminando sfioro una curva di vetro, è una lampada, sono goffa, ma la accerchio. La mia meta ora è la cucina, vorrei tanto ci fosse qualcuno a guidarmi, qualcuno che cacci fuori da un cassetto una vecchia torcia, però sono sola, ossia, sono accerchiata da oggetti che hanno un perimetro, una forma, e parecchia sostanza: sono fatti di metallo, di vetro, di legno. In questo percorso accidentato manca ancora la luce. Ce l'ho quasi fatta, in cucina c'è una grande finestra, fuori il cortile è illuminato, così ci vedo, più o meno. Finalmente bevo, ma al mio sollievo manca ancora qualcosa per sentirmi fuori pericolo: il colore. Il respiro che rianima le cose e le persone, accendendone l'immaginazione.
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