Siria, bombe e venti di guerra su una tregua nata troppo fragile
di Roberto Bongiorni
6' di lettura
In Siria tutto si sta svolgendo secondo copione. Secondo un tragico- e prevedibile – copione. La tregua faticosamente raggiunta sabato pomeriggio al Palazzo di vetro delle Nazioni unite – un accordo volto ad un cessate il fuoco di 30 giorni per consentire ai convogli umanitari di raggiungere la regione del Ghouta orientale– è apparsa sin dall’inizio troppo fragile e piena di incognite. Di fatto non è ancora iniziata. Forte del momento favorevole, l’aviazione del presidente siriano Bashar al-Assad ha continuato anche oggi i suoi martellanti bombardamenti sulle aree popolate dai civili in cui si sono nascosti i ribelli. Il bilancio della grande offensiva lanciata otto giorni fa per riappropriarsi del Ghouta orientale, una regione agricola ad appena 15 chilometri da Damasco, ha superato le 500 vittime, tra le quali molti bambini.
La nuova tregua “made in Mosca”
Sarà l’ennesima tregua fallimentare? Se le Nazioni Unite anche ieri hanno insistito a richiamare le parti affinché le armi tacciano, la Russia ha comunque agito con una sua mossa che non corrisponde alla tregua concordata ma che non rappresenta nemmeno il suo stralcio totale: a partire da domani, per cinque ore al giorno, dalle 9 alle 14, saranno osservate delle «pause umanitarie» per consentire ai civili di abbandonare la zona di Ghouta est, sotto il fuoco delle forze di Damasco. A renderlo noto è stato il ministro della Difesa russo Serghiei Shoigu. In altre parole i combattimenti proseguiranno, giusto per non far perdere il momento favorevole ad Assad, ma ai civili dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere consentito di abbandonare le zone assediate. Semprechè i ribelli glielo permettano, cosa che finora non hanno fatto.
Cosa ancor più grave i ribelli denunciano l’utilizzo di bombe al cloro da parte del regime siriano. Damasco ha sempre negato l’uso di armi chimiche nella guerra con i ribelli. Ciononostante è stato diverse volte sospettato dall'Onu per numerosi attacchi con gas cloro e almeno altri due attacchi, ben più gravi, con gas sarin. Il più grave avvenne il 23 agosto del 2013, proprio nel Ghouta . Centinaia di civili, con sintomi da intossicazione da gas, morirono in poche ore (le stime peggiori parlano di oltre 1.500 morti) . Gli Stati Uniti non esitarono ad addossare la responsabilità dell’attacco al regime siriano. La linea rossa era stata superata. L’allora presidente americano Barack Obama era sul punto di lanciare un vasto raid militare contro Damasco. L’entrata in campo della Russia, che propose un accordo per smantellare l'arsenale chimico del regime siriano, evitò la missione militare. Ma è sempre più probabile che, sebbene le abbia ridotte, il regime siriano abbia a disposizione ancora parecchie armi chimiche. E, secondo fonti dell’opposizione, le avrebbe impiegate in più circostanze. Cose che il presidente Bahshar al-Assad continua a smentire.
Anche ieri lOsservatorio siriano ha avanzato il sospetto che i siriani abbiano lanciato un attacco con cloro su Al-Shifuniyah, nel Ghouta orientale. «Diversi civili hanno avuto sintomi di soffocamento, un bimbo è morto», afferma l’Ong, precisando tuttavia di non avere ancora informazioni dettagliate sull’episodio e sulla natura delle armi usate nel raid.
Le ambigue eccezioni contenute nella tregua.
Quando gli accordi di tregue includono delle eccezioni in un conflitto così complesso come quello siriano, sono destinati spesso a rimanere solo sulla carta. L’ultima risoluzione ne è la dimostrazione. Il cessate il fuoco non riguarderebbe i gruppi estremisti affiliati ad –Qaeda, primo fra tutti il feroce fronte al-Nusra, del quale alcune cellule si sarebber asseraggliate anche nel Ghouta. Contro i suoi jihadisti i bombardamenti proseguiranno. Ma un’operazione militare selettiva dal cielo è pressoché impossibile. I miliziani di al-Nusra possono agevolmente mischiarsi ad altri gruppi, usare, come hanno fatto in passato, i civili come scudi umani. La guerra dunque è destinata a proseguire. Ed è lo stesso Iran, potenza sciita che ha dispiegato migliaia di pasdaran a fianco del regime siriano, a confermarlo. L’Iran, ha detto il capo di stato maggiore dell’esercito di Teheran, generale Bagheri , «rispetta questa risoluzione che è una decisione internazionale. Ma le zone alla periferia di Damasco in mano ad Aa-Nusra e ad altri gruppi terroristici non sono coperti dal cessate il fuoco».
Cresce la tensione ad Afrin: Erdogan vuole la Siria settentrionale.
Come se non bastasse la campagna militare avviata il 20 gennaio dalla Turchia per scaccia le milizie curdo siriane (Ypg)dal cantone settentrionale di Afrin (operazione Ramoscello d’ulivo) sta assumendo una pericolosa escalation. La scorsa settimana l’esercito di Assad, determinato a fare in modo che venga salvaguardata l’integrità territoriale di tutta la Siria, ha inviato milizie filo-regime ad Afrin per sostenere i combattenti curdi (che sulla carta farebbero peraltro parte dell’opposizione al regime). Dopo i tiri di artiglieri turchi contro di loro avvenuti la scorsa settimana, il rischio di un confronto militare tra Damasco e Ankara diviene sempre più vicino. Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan non nasconde più le sue ambizioni: la liberazione di Afrin sarà solo la prima tappa di una grande offensiva il cui fine ultimo è liberare tutta la Siria settentrionale dalle Ypg, considerate dal Governo turco un'estensione del Pkk (movimento indipendentista curdo attivo in Turchia incluso nella lista delle organizzazioni internazionali). Ankara non ha dubbi: le Ypg sono una minaccia alla sua sicurezza nazionale.
Erdgogan ha fretta: per accelerare la conquista della città di Afrin ha inviato le forze speciali della polizia e della gendarmeria turca nel nord-ovest della Siria per prendere il controllo di una lunga striscia di territorio a ridosso del confine.
Il punto più critico è Manbij, città curda a circa 70 km da Afrin. Il presidente turco Erdogan non manca mai l’occasione di citarla nei suoi bellicosi discorsi in pubblico. Venerdì scorsoè perfino arrivato ad accusare gli Stati Uniti di «mentire sempre». La ragione? Per Erdogan le Ypg sono terroristi, per il Pentagono sono invece la fanteria che si èdimostrato più efficace, organizzata ed intraprendente nella guerra contro l’Isis.
Dopo Afrin Erdogan intendedunque «“liberare» Manbij, città strappata dalle forze curde all’Isis nel 2016. Ma proprio a Manbji si trova una base dove operano i militari americani, dispiegati prorpio per assistere e addestrare le milizie curde, inquadrate nelle Syrian Democratic Forces, nella guerra contro l’Isis.
I diversi punti di vista sulla tregua ad Afrin.
Se per il presidente francese Emmanuel Macron il cessate il fuoco approvato sabato scorso dal Consiglio di sicurezza dell’Onu vale per tutta la Siria, non la pensa così il presidente turco Erdogan. «Alcune regioni come il Ghouta orientale fanno parte della tregua decisa dall'Onu, ma non Afrin«, ha presicsato il vice premier turco, nonché portavoce del Governo, Bekir Bozdag, aggiungendo. «La decisione dell’Onu non avrà alcun impatto sull’operazione Ramoscello d’ulivo».
Per il Governo di Ankara c’è poi un’altra ragione per continuare a combattere. Se la risoluzione Onu non si applica contro i gruppi di terroristi (gruppi affiliati ad al-Qaeda) lo stesso principio si applica anche alle Ypg, che agli occhi di Ankara devono essere considerati alla stessa stregua del Pkk, quindi terroristi. Per Washington, che da anni considera le Ypg i suoi miglio alleati sul terreno, e per i Paesi europei, le cose non stanno così.
Le prossime settimane saranno cruciali. Ci diranno se Erdogan si fermerà ad Afrin, se gli Stati Uniti decideranno invece di lasciare Manbij, se ci saranno scontri militari tra l’esercito turco e quello siriano, e forse addirittura tra turchi e americani. Tutto resta in sospeso. D’altronde si sa quando una guerra comincia, ma è quasi impossibile prevedere quando – e come – finirà. Soprattutto in Siria dove ormai il conflitto tra regime siriano e ribelli è solo uno dei tanti aperti in una guerra civile giunta all’ottavo anno e che ha provocato oltre 500mila vittime.
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