lo scontro con le milizie curde

Siria: i turchi occupano Afrin, popolazione in fuga

di Roberto Bongiorni

(EPA)

4' di lettura

Afrin sta per cadere. Se non è già caduta. La bandiera turca ora sventola sugli edifici pubblici della capitale del cantone della Siria nord-occidentale controllato da tre anni dai curdo siriani. Dopo un’offensiva durata 58 giorni, l'esercito turco, insieme alle milizie arabo-sunnite dell'esercito libero siriano, sembra aver raggiunto il suo primo obiettivo.

Ma in questa guerra, dove l’accesso ai media internazionali è stato impedito, e la macchina delle propaganda continua a sfornare versioni differenti sull'andamento del conflitto, i curdi hanno smentito gli annunci del Governo di Ankara; i combattimenti sarebbero ancora in corso, il centro di Afrin non sarebbe stato conquistato e in queste ore le milizie curde sarebbero impegnate ad aiutare i civili a fuggire dalle zone di combattimento.

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Le immagini circolate subito sui social network, che ritraggono carri armati turchi avanzare indisturbati nelle strade del centro città e le bandiere rosse con la mezzaluna e la stella sui balconi degli edifici delle istituzioni locali, sono però difficilmente contestabili. Lo stesso presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha annunciato che parte del centro di Afrin è stato conquistato.

Ognuno dei due belligeranti riporta il proprio bilancio, minimizzando le proprie perdite ed enfatizzando quelle subite del nemico. L'Osservatorio siriano per i diritti umani, organizzazione con sede a Londra, ha riferito che dall'inizio dei combattimenti, lo scorso 20 gennaio, sono morti circa 1500 combattenti curdi ad Afrin, e quasi 300 civili. Negli ultimi giorni, secondo le Nazioni Unite, almeno 150 mila civili hanno lasciato Afrin attraverso un corridoio umanitario predisposto dall'esercito turco.

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Ed ora che accadrà? Perché il difficile inizia ora. Una volta caduto tutto il cantone di Afrin – ed oramai sembra più una questione di quando e non più di se- si apre una partita diplomatica difficilissima che rischia di aprire scontri aperti tra grandi potenza, inclusi gli Stati Uniti.
Su Afrin il silenzio della Comunità internazionale, ed anche di quei Paesi, Stati Uniti in testa che sostengono le milizie curde nella guerra contro l'Isis, era stato assordante.
Era come se il mondo avesse accettato la capitolazione della città nello stesso giorno in cui aveva preso il via la campagna militare turca scattata il 20 gennaio. Un'operazione a cui era stato dato il controverso nome “Ramoscello d'ulivo”- L'obiettivo del Governo turco era scacciare dal cantone di Afrin le milizie dello Ypg perché ai loro occhi terroristi come il movimento curdo Pkk, che agisce soprattutto in Turchia. Una minaccia, dunque, alla sicurezza nazionale turca.

Erdogan non ha mai smesso di sottolineare il legame tra Pkk e Ypg. Ai suoi occhi era perciò intollerabile la presenza di uno pseudo stato curdo ai propri confini. Temeva peraltro potesse riaccendere l'irredentismo del Pkk all'interno della Turchia.

Davanti alla determinazione dei turchi, i quali giustificavano l'invasione del cantone di Afrin come una necessaria azione finalizzata alla tutela delle propria sicurezza nazionale, le grandi potenze hanno chiuso un occhio, se non tutti e due. Mosca ha evacuato i suoi militari presenti nel cantone, autorizzando di fatto l'aviazione turca a bombardare, entrando in uno spazio aereo controllato dai russi. Gli americani, che da anni hanno scelto i curdo siriani come le milizie sul terreno per combattere l'Isis – addestrandoli e fornendoli di armi – si sono semplicemente limitati ad invitare la Turchia alla moderazione. La protesta dei Paesi europei è stata insolitamente tiepida.

Ma la caduta di Afrin non segna certo la fine di una campagna che lo stesso Erdogan ha annunciato di voler estendere agli altri territori siriani controllati dalle Ypg curde, fino al confine iracheno e poi, con il consenso di Baghdad, anche nel Kurdistan iracheno. Un territorio molto vasto, circa un terzo della Siria, dove tuttavia sono presenti battaglioni stranieri. A cominciare dalla città strategica siriana di Manbij, il prossimo obiettivo dell'esercito turco, dove si troverebbero ancora circa 2mila soldati americani con compiti di affiancamento alle Syrian Democratic Forces (Sdf). Le Sdf sono una coalizione multietnica e multiconfessionale usata con successo dal Pentagono come fanteria di terra nella guerra contro lo Stato Islamico. I curdo-siriani ne rappresentano la spina dorsale, sono almeno l'80% degli effettivi ed a detta degli americani sono gli alleati più efficienti e affidabili. In verità, se la guerra contro l'Isis è stata praticamente vinta, il maggior contributo lo si deve proprio alle milizie curdo-siriane, che hanno perso migliaia di uomini per liberare i territori e le città occupate dai jihadisti, inclusa Raqqa, la capitale di quello Stato islamico che da alcuni mesi Stato non lo è più.

Erdogan ha ora invitato, per usare un eufemismo, gli americani a ritirare i loro sodati da Manbij. E finora la risposta del Pentagono è stata un secco no.
A sua volta il presidente siriano Bashar al-Assad non può tollerare che la campagna turca amputi la Siria di un terzo del suo territorio.
E se i russi sono intervenuti militarmente in Siria, nel settembre del 2015, ufficialmente per combattere l'Isis, lo hanno in realtà fatto per difendere al-Assad, il loro ultimo vero alleato in Medio Oriente che permette a Mosca di mantenere una base militare sul Mediterraneo.

Dopo Afrin le cose rischiano di complicarsi. Molto.

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