Smart working e senso della vita: di cosa parliamo quando parliamo di lavoro
Il lockdown è un’opportunità per ripensare spazi e tempi delle nostre giornate lavorative, purché non si trascuri la domanda sul senso di quello che facciamo
di Vittorio Pelligra
8' di lettura
Il dibattito che si è aperto in Italia, in questi mesi di pandemia, sul significato del lavoro, sulle sue caratteristiche essenziali, economiche e sociali, sulla possibilità di renderlo più «smart», senza perdere efficacia e produttività, ma rendendolo più facilmente conciliabile con le esigenze familiari, ambientali e, principalmente, in questo periodo, sanitarie, sta producendo una attenzione maggiore non solo sul tema della progettazione del lavoro, sul cosiddetto «job design», ma anche sul profondo significato di ciò che il lavoro è per noi oggi.
Lo smart working come opportunità
Lo smart working è la tendenza verso cui siamo spinti, innanzitutto da vincoli esterni sempre più stringenti – dalla riduzione della concentrazione delle persone alla loro mobilità insostenibile - ma anche in virtù delle opportunità che esso offre in termini di minori costi per le organizzazioni e maggiore soddisfazione dei lavoratori. Ma se lo smart working non può essere inteso solo come una brutta copia da svolgere a casa di ciò che si faceva prima sul posto di lavoro, allora si pone il problema, e la grande chance, di ripensare il lavoro stesso, perché questo diventi veramente smart. Certo non tutti i lavori possono essere facilmente trasformati, ma molti certamente sì. Il momento sembra propizio per iniziare a progettare questa trasformazione. Un sondaggio Egm-Agorà, di questa settimana, per esempio, mostra che solo il 40% degli italiani vorrebbe che si tornasse a lavorare come prima della pandemia. Ed è chiaro che coloro che chiedono che non si torni a lavorare come prima, non stanno chiedendo solo di continuare a lavorare da remoto, ma, piuttosto, una trasformazione più profonda del lavoro, un ripensamento capace di immaginare attività, mansioni e ruoli con un senso diverso, con più significato, dove ognuno non si senta solo mezzo, ma anche, un po’, fine.
La domanda di Graeber
È forse giunto il momento, dunque, di fermarsi e chiedersi «perché?».«Che cosa si può immaginare di più demoralizzante del doversi svegliare ogni mattina cinque giorni su sette nell’arco della vita adulta per portare a termine un compito che in cuor nostro crediamo non andrebbe svolto perché è solo uno spreco di tempo o di risorse, oppure perché addirittura rende peggiore il mondo?». Questo si chiedeva, qualche anno fa, in un saggio di grande successo l’antropologo David Graeber. E continuava, «Non rappresenterebbe una terribile ferita psichica per la nostra società? Probabilmente sì, ma è uno di quei problemi di cui nessuno sembra intenzionato a parlare» (Bullshit Jobs, 2018). Forse la pandemia e l’esperienza collettiva che, insieme, abbiamo vissuto questi mesi, qualcosa in questo senso hanno cambiato. Iniziamo a parlarne. Questa «cicatrice che segna la nostra anima collettiva» - come ancora la definisce Graeber – porta con sé delle conseguenze gravi. Lavori senza senso, inutili o perfino dannosi, rappresentano un enorme spreco di risorse umane, prima di tutto, ma anche naturali ed economiche. Sappiamo, poi, che la percezione che i lavoratori hanno dell’utilità e del senso del loro lavoro ne influenza significativamente la motivazione e quindi la produttività.
Quando il lavoro ci sembra privo di senso
Infine, indipendentemente dalla sua effettiva utilità, un lavoro che viene percepito come privo di senso, determinerà una perdita di benessere soggettivo per coloro che vorrebbero invece lavorare per una finalità degna e sentirsi utili agli altri.Mentre è decisamente complicato valutare in maniera oggettiva l’utilità o l’inutilità di un certo lavoro, ormai abbiamo dati solidi sia su ciò che pensano i lavoratori delle loro occupazioni, sia sull’effetto che tali percezioni esercitano sul loro benessere. Una indagine svolta nel 2015 su un campione rappresentativo di lavoratori inglesi riporta che il 37% di loro, con picchi del 41% nell’area di Londra, ritiene il proprio lavoro privo di significato. Nonostante questo, solo il 35% ritiene che riuscirebbe a cambiare lavoro. Moltitudini intrappolate in lavori privi di senso. Milioni di anime ferite. Un altro studio, pubblicato l’anno scorso, ha preso in considerazione 27mila lavoratori di 36 paesi differenti. Il 17% di loro nutre seri dubbi sul fatto che ciò che sono chiamati a fare ogni giorno sia di qualche utilità sociale (Dur, R., Van Lent, M., 2019. Socially useless jobs. Industrial Relations, 58, 3–16). Le percentuali sono più alte in paesi come la Polonia, il Giappone o Israele e raggiungono valori più bassi in Norvegia e Svizzera. Nel settore pubblico la percezione dell’utilità del proprio impiego sembra essere, generalmente, maggiore che nel settore privato (una differenza significativa del 6% in media). Questo è particolarmente vero, per esempio, per i vigili del fuoco, le forze dell'ordine, gli assistenti sociali, le professioni sanitarie e gli insegnanti. Per coloro che lavorano in questi ambiti la percentuale di insoddisfatti rispetto al senso e alla finalità della propria occupazione è, praticamente, pari a zero.
Le variabili sesso ed età
Da questo punto di vista sembra non esserci differenza tra uomini e donne, mentre tendono a essere leggermente meno soddisfatti coloro che hanno un titolo di studio più elevato, forse a causa del maggior rischio di disallineamento tra percorso di studi e occupazione effettiva. Un effetto fortemente significativo, poi, è quello legato all’età. I giovani tendono, in media, a ritenere il loro lavoro meno soddisfacente in termini di senso e utilità sociale. Questi dati ci portano immediatamente a un secondo aspetto della questione: qual è l’impatto di un lavoro «sbagliato», sulla nostra felicità? Il 77% dei lavoratori ritiene che avere un’occupazione socialmente utile sia un elemento importante o molto importante per la propria vita e che, quindi, lavori inutili o poco significativi influenzino negativamente il loro benessere soggettivo. Questo è particolarmente vero proprio per coloro che ritengono di svolgere un lavoro socialmente inutile: il 96% di questi, infatti, ritiene che un lavoro che consente di rendersi utili agli altri e alla società nel suo complesso, sia un elemento essenziale per potersi ritenere soddisfatti della propria vita. A questo riguardo qualcuno si è spinto a ipotizzare che la mancanza di senso del proprio lavoro si possa compensare attraverso una retribuzione monetaria più elevata, come una sorta di premio all’inutilità. I dati di Dur e Van Lent, però, mostrano che non c’è nessun differenziale salariale significativo tra i lavoratori soddisfatti e quelli insoddisfatti. Altre analisi, utilizzando una misura composita di «senso», che fa riferimento all’interesse intrinseco per il lavoro in sé e alla possibilità, attraverso lo stesso, di essere utili agli altri, trovano che i lavoratori con una maggiore percezione del senso del loro lavoro sono meno propensi ad accettare offerte di lavoro alternative, anche se queste offrono remunerazioni anche più alte della loro attuale (Hu, J., Hirsh, J., 2017. Accepting Lower Salaries for Meaningful Work, Frontiers in Psychology 8: 1649). Significato e finalità determinano maggiore soddisfazione del lavoratore e, quindi, maggiore attaccamento al lavoro. Se il lavoro soddisfa il mio bisogno di senso, allora sono disposto a farlo anche per uno stipendio relativamente più basso.
Perché esistono ancora «lavori del cavolo»?
Al contrario, se questo bisogno rimane insoddisfatto, allora non basterà uno stipendio più elevato a compensare l’insoddisfazione. Ma perché, visti anche questi effetti negativi sul benessere personale, continuiamo a inventarci «lavori del cavolo», per riprendere il titolo del libro di Graeber? Perché continuiamo a giustificare e legittimare un sistema economico e produttivo capace di privare di significato le vite dei lavoratori che a tale sistema contribuiscono? Le ipotesi, al riguardo sono diverse. La prima, più che un’ipotesi è un fatto. Ci sono lavori e imprese che producono «mali» e non «beni». Imprese che producono ricchezza per pochi e distruggono valore per molti. Sono, innanzitutto, le cosiddette «sin industries», che operano tradizionalmente nei settori del tabacco, dell’azzardo e delle armi. Ma anche quelle basate fortemente su rendite di posizione e pressante attività di lobbying. C’è poi tutta un'industria che i Nobel George Akerlof e Richard Thaler chiamano «economia della manipolazione e dell’inganno», che sfrutta sistematicamente la vulnerabilità, la fragilità, la debolezza psicologica e l’ignoranza dei consumatori, per lucrare lauti profitti. Lavorare in questi settori non fa bene al bisogno di senso dei lavoratori. I dati sembrano andare in questa direzione. Tra i 20 lavori peggiori, se valutati in termini di utilità sociale percepita, ci sono, per esempio, gli addetti alle vendite, al marketing e alle pubbliche relazioni in ambito finanziario e bancario. Per quanto riguarda i settori dell’azzardo e del tabacco, i dati a disposizione non sono sufficienti per portarci a una conclusione.
Il ritorno dell’alienazione
Un secondo aspetto che spiega l’esistenza di questi lavori, fa riferimento alla classica teoria marxiana dell’alienazione. È la natura isolata, frammentata e parcellizzata della mansione che siamo chiamati a svolgere, a rendere il lavoro alienante e, quindi, privo di senso e insoddisfacente. Anche per questa spiegazione sembra esserci evidenza di supporto. Tra i lavori meno soddisfacenti, infatti, troviamo l’assemblatore, l’addetto alla catena di montaggio, l’operatore di macchina e tutti quei ruoli che prevedono attività manuali semplici e ripetitive. Una terza spiegazione è quella che fa riferimento al ruolo dei manager. Questi sono chiamati, spesso, a progettare le dinamiche lavorative all’interno delle organizzazioni. Competenze insufficienti o una visione obsoleta da parte dei manager possono produrre effetti negativi sulla qualità del lavoro dei dipendenti. Su questo punto i dati sembrano dire di meno. Non esiste infatti una correlazione significativa tra qualità manageriale nei vari settori economici e la quota dei lavoratori che, in quegli stessi settori, ritengono il loro lavoro socialmente inutile. Una quarta spiegazione si basa sul possibile effetto negativo delle norme legali a tutela della stabilità dei posti di lavoro. Se la normativa rende difficile il licenziamento, anche in quelle imprese nelle quali, per varie ragioni, la domanda è diventata insufficiente a giustificare determinanti livelli occupazionali, i lavoratori si troveranno ad essere impiegati per «far nulla». E questo, naturalmente, non potrà che avere un impatto negativo sulla percezione dell’utilità del proprio lavoro. Anche su questo aspetto i dati sono silenti. Non sembra esserci, infatti, nessuna prova a supporto di questa ipotesi.
No, il lavoro non è una merce
Cosa possiamo concludere dunque? Innanzitutto, che, se l’esperienza di senso e di finalità sono determinanti fondamentali per il perseguimento di una vita felice e per il nostro benessere psicologico, la dimensione lavorativa che occupa gran parte delle nostre giornate e dei nostri pensieri, ben oltre l’orario canonico, non può non essere un elemento centrale di questo processo, nel bene e nel male. Sappiamo anche che i bisogni fondamentali di autostima, finalità, senso e identità sono praticamente indipendenti dalla dimensione monetaria del lavoro, eppure, allo stesso tempo, sono una componente fondamentale della motivazione del lavoratore e, quindi, della sua produttività. Un bene, dunque, non solo per il lavoratore, ma anche per l’organizzazione. Nonostante questo, i dati ci dicono di tante organizzazioni che considerano ancora il lavoro come una merce da acquistare e il salario come il suo prezzo. Una moltitudine di lavori inutili e perfino dannosi che condannano milioni di persone nel mondo a una vita che distrugge senso invece di generarlo. Si capisce che c’è qualcosa di sbagliato in queste organizzazioni, in un sistema economico che le premia con lauti profitti e le fa sopravvivere grazie ad una cultura del lavoro ancorata pervicacemente a modelli obsoleti.
Non solo «cosa», ma anche «come» produci
Abbiamo visto che ciò dipende in parte dalla natura dei beni e dei servizi stessi che vengono prodotti – a volte più «mali» che «beni» – ma anche da come questi vengono prodotti – troppo spesso attraverso processi alienanti e spersonalizzanti. La riflessione su questi due aspetti può essere il luogo da cui partire per una discussione ampia, se vogliamo che la «ripartenza» possa rappresentare, effettivamente, un passo avanti e non una mera restaurazione del passato. Davvero abbiamo bisogno di un settore dell’azzardo così pervasivo e invadente? Davvero dobbiamo continuare a produrre armi e a esportarle nella misura in cui lo facciamo ora? Davvero non abbiamo imparato a produrre in maniera più rispettosa dell’ambiente e della natura umana di quanto non si facesse nelle fabbriche degli inizi del Novecento? Davvero le grandi organizzazioni non sanno fare di meglio che considerare i loro «collaboratori» come denti di un enorme ingranaggio? Ci sono certamente esperienze di eccellenza in questo senso, anche in Italia. Sarebbe ora di dargli la visibilità, l’importanza e il riconoscimento che meritano e magari di imparare, replicare, trasferire queste pratiche là dove ancora si fa fatica a tenere il passo col futuro, che, comunque - siamo pronti oppure no - è già arrivato.
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