Solidarietà criminale
Nessun dubbio, la crisi scatenata dall'emergenza Coronavirus è per i clan una ghiotta occasione. Ne è convinto Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia: offrono aiuto, prestano soldi, e così facendo creano consenso e nuove affiliazioni. «Come in un pizzo al contrario», spiega a “IL”
di Raffaella Calandra
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I primi ad accorgersene sono stati i preti di periferia. E i volontari di quei quartieri, dove anche il cielo sembra più grigio. Grigio, come certi palazzoni dall'intonaco sbrecciato. È qui, nel labirinto dello Zen di Palermo, nel rione Candelaro di Foggia, nei paesini arroccati della Locride o nei vicoli di quella Napoli non bagnata dal mare – direbbe Anna Maria Ortese – che il numero dei nuovi poveri si è impennato.
Insieme all'emergenza Coronavirus. Ed è qui che i clan hanno cominciato a bussare a nuove case. Offrono aiuto a chi si è ritrovato in povertà assoluta, a chi già sopravviveva con lavoretti in nero e che non sempre è in grado di rifiutare soldi, anche se sporchi; bussano alle saracinesche di commercianti e artigiani che hanno da pagare affitti e da mantenere famiglie e che aspettano il sostegno dello Stato. «I clan tendono in modo insidioso la mano, per avere in cambio una solidarietà di ritorno; o si fanno avanti, per impossessarsi di piccole attività».
La radiografia di Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia, una lunga esperienza contro la camorra, soprattutto, e poi nei feudi della 'ndrangheta calabrese, è composta da prime «confidenze investigative», «da qualche segnale sul territorio», dall'esperienza e ancor di più dalla conoscenza delle dinamiche mafiose: «La crisi attuale è un'occasione ghiotta, per i gruppi criminali, per reclutare manovalanza e consenso, mettere le mani su micro imprese e poi, a un livello più alto, fare affari». Non sono tempi di estorsioni e violenze esplicite. Piuttosto, di «un pizzo al contrario». Quello di chi non pretende una percentuale su guadagni inesistenti, ma offre prestiti per bisogni immediati. A volte, qualche migliaio di euro per le difficoltà, provocate dalle chiusure; a volte, anche solo poche decine di euro, per chi viveva di espedienti.
Parcheggiatori abusivi, rivenditori di ferro vecchio, ambulanti, ma anche operai in nero e il nutrito esercito dei disoccupati. Profili che sfuggono alle statistiche e ai bonus, ma riconosciuti subito alla porta di associazioni come il centro Padre Nostro di Palermo, nel quartiere di Brancaccio o allo Zen. Racconta il presidente Maurizio Artale: «Sono raddoppiate le richieste di pacchi alimentari e di chi ha bisogno di aiuto per pagare le bollette». E questo «preoccupa tantissimo», conferma il procuratore De Raho, anche nel resto del Paese: le file al Banco dei Pegni a Napoli come a Livorno; le code alle mense dei poveri; i nuovi arrivi alla Caritas ambrosiana. «Voglio essere chiaro: la povertà non significa affatto adesione alle lusinghe criminali, ma non mancano i collaboratori di giustizia che hanno ammesso di essere diventati manovalanza dei clan per necessità», ricorda De Raho. «Poi da quei circuiti ne sono usciti».
In fasi di crisi, le mafie si costruiscono «quella solidarietà di ritorno» su cui potranno contare. È la ragione per cui «troviamo il vecchietto che custodisce la droga; il padre di famiglia, non affiliato, che nasconde armi; il ragazzo che porta messaggi». Ricambiano aiuti ricevuti. Un consenso costruito anche attraverso i prestiti. E fin dall'inizio del lockdown si sono registrati segnali. Divenuti più intensi e più preoccupanti con i finanziamenti per il rilancio economico del Paese.
«Nelle intercettazioni, affiliati alla ‘ndrangheta si preoccupano di reperire società da riconvertire», conferma Alessandra Dolci, a capo dell'Antimafia milanese. Spesso piccole e in difficoltà, che diventano schermi per avere accesso ai 25mila euro per le Pmi o «ai finanziamenti a fondo perduto della Regione Lombardia, per le aziende che producano dispositivi sanitari», avverte il procuratore aggiunto milanese. «Ma puntano anche a finanziamenti ben più elevati».
Già all'inizio dell'emergenza, tra le migliaia di domande arrivate in Prefettura da aziende che chiedevano di restare aperte, riconvertendosi, sono state notate società attive in settori molto distanti da quello sanitario. Tutte spie di un rischio infiltrazioni, da bloccare ora più che mai, per evitare il cortocircuito e la beffa che, con soldi ottenuti con garanzia pubblica, le mafie possano strozzare, con l'usura, tanti in difficoltà. Da subito, le associazioni di volontariato hanno lanciato allarmi sugli invisibili di questa crisi, a cominciare dagli 800mila lavoratori irregolari stimati da Svimez, secondo cui per le imprese del Mezzogiorno il rischio di chiudere è quattro volte superiore. I clan si faranno avanti. E chi avrà avuto un sostegno, svilupperà un «malriposto sentimento di sudditanza e gratitudine», avverte l'ultima relazione del commissario antiracket e antiusura.
Bisogna entrare in quei vicoli, dove il “forestiero” viene seguito da decine di occhi; bisogna ascoltare le invettive delle donne o assistere alle rivolte contro la polizia, per comprendere la «solidarietà di ritorno» su cui contano i clan. E situazioni di emergenza sono occasioni di crescita per i «piccoli gruppi di camorra, che controllano anche solo una strada; o per gruppi fluidi del Foggiano o del Barese: provano così a radicarsi sul territorio», avverte De Raho. La costruzione del consenso. La creazione del regno. Il controllo delle micro imprese. «Offrono soldi al commerciante in crisi e acquisiscono di fatto il controllo del negozio».
Nell'ultima crisi economica, le cronache hanno raccontato storie di imprese finite sotto l'egida della 'ndrangheta anche al Nord. «Ufficialmente i titolari erano gli stessi, ma le intercettazioni hanno documentato come fossero trattati da schiavi». Sceglie questa parola, il procuratore antimafia, per rievocare la sorte di due milanesi finiti nel gorgo del sistema di credito parallelo creato dai clan Condello e Pesce Bellocco per ripulire i soldi: 'ndrangheta banking. Quando un imprenditore andò a chiedere tempo, gli fecero capire con chi avesse a che fare. «“Dimmi il calibro di un'arma”, gli chiese l'uomo in grisaglia», racconta il procuratore sulla base delle intercettazioni. «L'interlocutore prima citò la calibro 38; sollecitato ancora, pensò al kalashnikov o alla mitragliatrice e all'improvviso quelle armi gli furono messe davanti». Lì, nell'ufficio, che lui credeva filiera di un sistema di credito. Allora capì. E provò vergogna. La vergogna che abbassa lo sguardo e cuce le bocche. «Da qui, l'importanza della velocità nei sostegni dello Stato. Se i soldi arrivano tardi, le imprese muoiono prima e aumenta il rischio di esposizione ai clan».
La filiera sanitaria è stata indicata dalla ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese, tra quelle su cui fare più attenzione, insieme all'agroalimentare e al comparto turistico in sofferenza. Nel 2019, sono stati concessi 17 milioni alle vittime di usura e racket, dopo aver valutato 2.179 posizioni. Ma non mancano le preoccupazioni di finte vittime che denunciano per avere accesso ai fondi. Di sicuro, invece, ancora una volta a essere «più esposte ai clan sono le piccole e medie imprese», scrive il Commissario antiracket e antiusura nell'ultima relazione. Soprattutto quando, nelle emergenze, anche il cielo diventa grigio.
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