Corno d’Africa

Somalia, Saleem e gli altri: i profughi che tornano a casa in cerca di futuro

Un progetto dell’ong italiana Avsi con il supporto dell’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo (Aics) punta su formazione e sostegno della popolazione

di Carlo Andrea Finotto

4' di lettura

Dadaab è un complesso di campi profughi nel nord del Kenya: si trova nei pressi del confine con la Somalia ed è stato aperto nell’ormai lontano 1991 per accogliere il flusso di persone in fuga dalla guerra civile somala. Oggi i tre campi esistenti ospitano circa 218mila persone (dati Unhcr, l’Angenzia Onu che si occupa dei rifugiati, aggiornati al luglio 2020), ma a causa della carestia del 2011 la popolazione arrivò a superare le 330mila persone e richiese l’apertura di altri due campi poi chiusi.

Il campo profughi gigante

Dadaab è uno dei più grandi campi profughi del mondo, secondo alcuni addirittura il più grande. La situazione in Somalia non è certo normalizzata, la tensione è risalita negli ultimi mesi a causa del rinvio di due anni delle elezioni e dei rinnovati attacchi di Al Shabaab (gruppo terroristico di matrice islamica). Tuttavia, dal 2014 all’aprile 2021 sono circa 85mila i somali che hanno deciso di rientrare nel loro paese dal Kenya (32 in questi primi mesi dell’anno secondo Unhcr).

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Un intervento del servizio veterinario nell’ambito del progetto Avsi in Somalia supportato da Aics

Il flusso di ritorno dei profughi

Di questo flusso di persone fa parte anche Saalem, una giovane somala madre di 4 figli che ha deciso di ritornare in Somalia nella speranza di un futuro migliore rispetto a quello che si prospetta restando nell’enorme campo profughi dove in condizioni precarie sono cresciute due generazioni di somali. Saalem ha preso coraggio e come tanti giovani del suo popolo è tornata nel paese d’origine per stabilirsi nell'insediamento di New Gobweyn, dove l'ong italiana Avsi le ha fornito aiuti di prima emergenza e soprattutto suo marito ha potuto ricevere supporto per le attività agricole con la speranza di migliorare la qualità di vita dell'intera famiglia e garantire un futuro migliore ai figli.

Avsi opera all'interno di un corridoio di circa 250 chilometri che va dal campo profughi di Dadaab – all’interno del quale l’ong è presente dal 2009 – fino alla città portuale di Kismayo, nella regione del Jubaland, in Somalia.
«La zona è un'oasi di relativa stabilità per la popolazione locale in una terra altrimenti battuta da scontri e violenza: è un'area abbastanza sicura, liberata dalla presenza di Al-Shabaab nel 2013 e poi gradualmente ripopolata» racconta Andrea Bianchessi, regional manager di Avsi.

Nuove tensioni interne

Se da un lato negli ultimi anni si sono susseguiti i rimpatri volontari dai paesi circostanti - solo in Kenya sono presenti poco meno di 270mila profughi, oltre 200mila sono in Etiopia – è anche vero che la situazione in Somalia non si può definire normalizzata. Il conflitto politico interno è di nuovo alto, da aprile la capitale Mogadiscio è scossa da scontri a fuoco tra diverse fazioni armate, tra cui i reparti dell'Esercito Nazionale Somalo (Sna). A scatenare gli scontri la recente decisione del governo centrale di rinviare di due anni le elezioni, decisione che l’opposizione ritiene illegittima.

«Arriviamo da mesi di tensioni causate dal disaccordo sul processo elettorale e dalla mancata introduzione del suffragio universale, uno dei principali punti non rispettati del programma politico di Farmaajo» spiega Bianchessi.

In compenso, lunedì 31 maggio il Somaliland (regione al Nordovest della Somalia) ha tenuto le sue elezioni dopo aver proclamato l’indipendenza da Mogadiscio trent’anni fa. Ha votato un milione di persone.

Il “ritorno” di Al Shabaab

Allo stesso tempo, Al Shabaab, che ancora controlla ampie zone nel centro-sud del paese, sta approfittando della confusione per aumentare la tensione e interferire con il processo elettorale e guadagnare terreno, favorito anche dal ritiro di numerosi reparti dell'esercito etiope, uno dei contingenti principali dell'Amisom, la missione di peace-keeping dell'Unione Africana in Somalia. Le ultime settimane hanno visto l'intensificarsi delle attività terroristiche da parte di varie cellule del gruppo sia contro la società e le autorità somale, sia contro le stesse forze dell'Amisom.

Il sostegno alle persone e alle comunità

Il progetto di Avsi si inserisce in questo complesso scenario grazie al sostegno dell'Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) e punta su formazione e sostegno economico agli insegnanti locali, sia nelle scuole pubbliche che in quelle comunitarie, interventi per rilanciare il settore produttivo della regione, rivolti soprattutto ad allevatori, contadini e pescatori, e sostegno psico-sociale soprattutto a donne che hanno subito abusi e violenze e a persone con disabilità.

«L’obiettivo – chiarisce Bianchetti – è fornire supporto in vari aspetti della vita quotidiana a rifugiati interni e comunità ospitanti, coinvolgendo circa 7mila persone in 10 villaggi, nella stessa situazione di Saleem, la quale riceve strumenti, semi e formazione su pratiche agricole nella speranza di migliorare la propria qualità di vita e della sua famiglia e per garantire un futuro migliore ai propri figli. Altre persone, come Mohamed e Aden, pescatori sul fiume Juba, avranno la canoa ristrutturata e nuove reti da pesca. Ogni villaggio avrá a disposizione un carretto trainato da asini per vendere i prodotti agricoli ad altri villaggi e fino a Kismayo».

Il riacutizzarsi degli scontri interni e gli attacchi terroristici hanno causato da aprile altri 257mila profughi interni – segnala l’Unhcr – che hanno portato il totale a 2,9 milioni nelle varie aree della Somalia, oltre ai quasi 670mila profughi nei paesi circostanti.


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