ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùDopo la bocciatura del Cnel

Sono le parti sociali a doversi impegnare contro il lavoro povero

La recente bocciatura del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) in merito all’istituzione di un salario minimo in Italia, ha animato il dibattito sulle misure da adottare per combattere il lavoro povero

di Gabriele Fava

(Ansa)

3' di lettura

La recente bocciatura del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) in merito all’istituzione di un salario minimo in Italia, ha animato il dibattito sulle misure da adottare per combattere il lavoro povero. Questo dibattito, tuttavia, rischia di essere oscurato dalla crescente polarizzazione politica e dalla retorica partitica, rischiando di allontanarsi dal cuore della questione ossia cercare di combattere il cosiddetto lavoro povero. La sede naturale per il confronto e la revisione dei minimi salariali è da sempre, come sancito anche dalla stessa Costituzione, la contrattazione collettiva. Ragionamento, questo, che il Cnel ha avallato. La tesi del Cnel ha, quale principale assunto, il principio secondo il quale non è quanta parte della retribuzione debba mantenersi in capo alla contrattazione collettiva, bensì – invece – come estendere le migliori pratiche di contrattazione alla generalità dei lavoratori. Per tali ragioni l’istituto ritiene inutile agire sull’effetto finale di tale processo che coinvolge le parti sociali e che si basa sul difficile equilibrio del mercato del lavoro. Più urgente sarebbe invece «un piano di azione nazionale, nei termini fatti propri della direttiva europea in materia di salari adeguati, a sostegno di un ordinato e armonico sviluppo del sistema della contrattazione collettiva». Quest’ultima rappresenta il pilastro delle tesi del Cnel: essa copre quasi il 100%, una quota più alta del minimo dell’80% fissato dall’Ue. Con paghe medie che aderiscono ai parametri europei, arrivando in base ai dati Istat del 2019 a quota 7,10 euro all’ora.

Per il Cnel occorre che i salari si conformino al principio dell’adeguatezza del trattamento retributivo attraverso lo sviluppo del sistema della contrattazione collettiva.

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Ciò che l’istituto ha provato a mettere dunque in luce, è la totale centralità della contrattazione collettiva e del salario minimo contrattuale e non la imposizione dall’alto di un salario minimo legale.

La fotografia che viene data dall’istituto è certamente condivisibile ma va integrata: per rendere efficiente l’abbattimento delle paghe “da fame” e del cosiddetto lavoro povero le parti sociali devono essere responsabilizzate.

I corpi intermedi devono cioè essere obbligati ad aggiornare i contratti collettivi in scadenza, inclusi i minimi salariali. Questo processo dovrebbe rappresentare il cuore della lotta contro i salari insufficienti e il lavoro povero. Lo Stato deve intervenire solo laddove le parti sociali risultino non adempienti ovvero non ottemperino al rinnovo dei Ccnl a scadenza. In tal senso si giustifica l’intervento dello Stato in termini di copertura ed adeguatezza dei salari minimi che potrebbe poi anche svolgersi tramite Istituti ad hoc ovvero del Cnel. Il controllo dello Stato deve, però, rispettare il principio di sussidiarietà.

L’idea di universalizzare i contratti collettivi più rappresentativi ci sembra una strada poco percorribile se non altro poiché occorrerebbe prima capire cosa si intende per “più rappresentativi”.

Un tale sistema non pare efficace per spazzare via i cosiddetti contratti pirata, senza contare che c’è, in tale ipotesi, un alto rischio di aumento del contenzioso.

La definizione del minimo contrattuale applicabile alle categorie contrattuali, tuttavia, non può prescindere dalla produttività.

La crescita dei salari deve essere direttamente proporzionale alla crescita economica e al vantaggio competitivo delle imprese.

Occorre infatti considerare l’attuale contesto produttivo – caratterizzato da economie in costante trasformazione tecnologica ed organizzativa – ove la prestazione di lavoro è sempre meno identificabile nell’ambito dei classici sistemi di inquadramento: la definizione di un salario minimo applicabile alla generalità dei lavoratori (o comunque ad una categoria degli stessi) difficilmente potrebbe contribuire a garantire migliori condizioni laddove la retribuzione – alla luce della maggiore flessibilità organizzativa richiesta al lavoratore – risulta maggiormente ancorata al risultato ed orientata a remunerare la professionalità del lavoratore piuttosto che le qualifiche definite dalla contrattazione collettiva. In un tale scenario, pertanto, la definizione di un salario minimo potrebbe rivelarsi una misura anacronistica, nonché inutilmente ancorata a sistemi produttivi ormai obsoleti.

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