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Sostenibilità democratica e inclusività, un nuovo obiettivo per le imprese

Che lo vogliamo o no, è arrivato il tempo di accettare che la democrazia è in crisi. Il populismo e lo spegnersi della partecipazione politica sembrano essere gli elementi che minano di più il futuro di un sistema realmente democratico.

di Andrea Notarnicola e Gabriele Segre

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4' di lettura

Che lo vogliamo o no, è arrivato il tempo di accettare che la democrazia è in crisi. Il populismo e lo spegnersi della partecipazione politica sembrano essere gli elementi che minano di più il futuro di un sistema realmente democratico. Cittadini che non comprendono il valore delle elezioni e non partecipano alla vita politica paiono far parte di un quiet quitting collettivo che obnubila la curiosità di approfondire le opzioni in campo e la scelta dei soggetti più idonei a governare la complessità del mondo contemporaneo. Una sensazione di impotenza demotivante alimenta la frammentazione sociale e rischia di aprire spazi alla ricerca di ordini alternativi, dalle forme più autoritarie. Tuttavia, non dobbiamo mai dimenticare che la democrazia è un sistema aperto basato sulla partecipazione. Nessun paradigma o pensiero, per quanto dominante, può evitare di essere sostituito o integrato da nuove priorità e convinzioni, se la maggioranza lo desidera. La democrazia ha la missione di perfezionarsi senza dirsi mai perfetta, in analogia con quello che Karl Popper definì «principio di falsificazione» nella scienza.

Questo contesto, fondato sullo sforzo per il miglioramento continuo, è anche il miglior sostrato sociale ed ecologico per le imprese che credono nell’avanzamento delle idee, della conoscenza e della tecnologia. Per questi soggetti la democrazia ha anche un altro vantaggio: è l’unica società che permette alle aziende di avere un ruolo di contribuzione veramente attiva nella costruzione del contesto sociale. Al contrario, nei Paesi non democratici le imprese vengono più facilmente relegate alla condizione di spettatrici passive. In questi contesti le imprese si trovano spesso a subire le conseguenze di una crisi di regime, misurando così sulla loro pelle i costi di una dispersione di risorse di libertà e democrazia. Se le aziende non realizzano di essere parte di una comunità, ne patiscono esse stesse per prime le conseguenze.

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La cultura democratica, infatti, guarda alla società come un organismo formato da parti anche diverse e specializzate, ma in cui ogni soggettività non è solo un’identità a sé stante, ma anche parte di un sistema più grande. La società e le individualità sono organicamente connesse le une con le altre. Se la società non è coesa, le conseguenze della mancanza di unità avranno un effetto anche sulle aziende. Nessuna impresa cioè vive asetticamente rispetto alle altre essendo connessa alla vita organica e plurale delle altre unità sociali. È quindi legittimo chiederci se per le aziende non sia arrivato il momento di impegnarsi, oltre che sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica, anche per una nuova categoria di sostenibilità: quella democratica. Se sì, allora questa dovrebbe diventare una nuova priorità per le imprese. Ma quali obiettivi si possono definire nel perseguimento di tale aspirazione?

La scienza politica definisce quali sono le caratteristiche dei regimi democratici e come queste debbano essere perpetuate nel tempo perché continuino a essere tali. Esistono regole precise che tutelano questa continuità, ad esempio quelle che garantiscono all’opposizione di concorrere liberamente alle elezioni o che le consentano di partecipare attivamente e in modo continuo alle scelte riguardanti la vita della comunità.

Ma la democrazia non si risolve in un mero impianto istituzionale. Essa funziona se è accompagnata da una cultura di riferimento che restituisce sostanza a tutte le azioni collettive: la consapevolezza responsabile che la democrazia non debba essere solo una necessità, ma anche una scelta etica condivisa. Nel corso dell’ultimo decennio, le imprese hanno avuto un ruolo educativo e sociale centrale sui temi dell’inclusività, dell’equità e della valorizzazione delle differenze. Oggi hanno il dovere e il potere di estendere questo intervento culturale alla promozione di una cultura responsabile e liberal-democratica volta a promuovere la partecipazione e il rispetto della diversità di pensiero.

In primo luogo esse possono alimentare una cultura della partecipazione all’interno della comunità aziendale, attraverso la creazione di reti che fungano da agenti del cambiamento, employee resource groups e programmi di intelligenza collettiva. Poi possono coinvolgere l’indotto e la rete a esso connessa, impostando spazi e occasioni che aiutino la promozione della cultura della diversità di opinione, e raccogliendo idee di innovazione e trasformazione. Infine possono diffondere presso le nuove generazioni i princìpi liberal-democratici, divulgando i valori e le posture mentali collettive proprie di una democrazia. Evitando toni idealistici e derive di democracy-washing, possono contribuire a motivare i giovani all’approfondimento, al voto e alla partecipazione attiva. Tra l’essere leader influencer o utenti follower, la cultura democratica propone alle persone una terza via: essere cittadini participant, cioè imparare a prendere parte. Nel mettere in atto questi programmi, le organizzazioni incroceranno segmenti di popolazione giovane che stanno di fatto guidando il cambiamento, in particolare rispetto alle questioni della sostenibilità ambientale e dell’inclusività. Saranno proprio queste comunità a poter diventare tra le prime ambasciatrici di nuove forme di attivismo politico: veri e propri laboratori di idee per la cittadinanza, incubatori di partecipazione democratica, di innovazione sociale, scientifica e tecnologica.

Andrea Notarnicola è consulente di direzione di Newton;
Gabriele Segre è direttore della Vittorio Dan Segre Foundation

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