Stabilimento Italsider Bagnoli

Sotto il pergolato le sirene della «dismissione»

L’epopea tragica dell’industrializzazione del Sud rappresentata nelle alterne vicende dell’industria siderurgica affacciata sul Golfo di Napoli

di Giuseppe Lupo

Un operaio esce in una calda giornata estiva dallo stabilimento Italsider di Bagnoli (Fotogramma)

6' di lettura

Il pergolato che si trova all’interno del Circolo Ilva Bagnoli ha la forma di un cunicolo stretto e lungo, ma non è eccessivamente alto come sembrerebbe a prima vista, tanto da mettere in dubbio che Ermanno Rea si infilasse davvero là sotto, al tempo in cui riempiva di appunti i suoi quaderni. Non sappiamo se siano stati necessari dieci anni per trasformare questi materiali in quel capolavoro che è La dismissione. Di certo però tra il 1990, in cui è avvenuta l’ultima colata nelle acciaierie dell’Ilva, e il 2002, in cui è stato pubblicato, il libro si sarà nutrito delle voci, dei ricordi, delle storie vere o presunte che ancora oggi si respirano nei locali del Circolo, l’ultimo settore rimasto vivo di quella grande avventura dell’industrializzazione meridionale che Rea ha chiamato “Ferropoli”.

L’avventura di Ferropoli
Mi piace pensare che, quando prendeva appunti, fosse seduto in maniera da avere a un lato uno degli scorci più suggestivi del mare che bagna Napoli - l’isola di Nisida a distanza di poche bracciate, più in là l’isola di Procida, sullo sfondo la baia Domizia e i Campi Flegrei - e all’altro lato il muro che delimitava l’area industriale, un perimetro annerito dal fumo, oltre il quale uscivano le estremità delle costruzioni risparmiate alla furia delle ruspe e dei martelli perforatori: l’altoforno 4, una candela coke, una torre di spegnimento, la centrale termoelettrica, la gabbia discagliatrice, alcune ciminiere. Sono stati lasciati in piedi per diventare archeologia industriale, pezzi di un museo ancora tutto da organizzare o di un parco destinato a celebrare la sacralità del lavoro, che da queste parti si è manifestato nelle forme severe dell’industria pesante. Stanno lì, questi giganti, a spiarsi nella loro solitudine, inaccessibili agli sguardi dei curiosi che aspettano di vederli valorizzati come meritano, in una cornice pari all’orgogliosa dignità che rivendicano. In attesa che ciò accada, le parti metalliche di ciascuno di essi si sono coperte di ruggine e nella loro astrusa condizione di relitti salvati a un naufragio manifestano un senso di straniamento e di vuoto, sembrano lontani parenti dei manichini inquieti apparsi sulla terra ai primi del Novecento.
Rea li contemplava dal pergolato, ma sapeva bene che la migliore prospettiva è quella aerea. Salendo in cima alla collina di Posillipo, infatti, l’area è ancora più spettrale, una waste land dove ambientare tanto il poema di Eliot quanto le sconcertanti distopie che Paolo Volponi si era divertito a descrivere nel Pianeta irritabile (1978). Se è ipotizzabile che gli uomini hanno inventato le macchine per colmare il vuoto in cui si erano trovati dopo il tramonto degli dèi e la morte dei padri - e in questa lettura capovolta della modernità probabilmente sta racchiuso il dramma del Novecento come secolo della condizione di orfani -, un mondo ancora più desolato emerge con tutta la sua disarmante contraddizione dopo che anche le macchine sono state portate via.

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Sguardo postindustriale
Non bisogna aver paura di percorrere con lo sguardo questo scenario postindustriale. Il rosso ruggine era un contrassegno cromatico già presente nelle pagine del romanzo di Carlo Bernari, Tre operai (1934), ambientate in questo luogo negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra. I “tre operai” cercavano un posto nel mondo e non lo trovavano nemmeno qui, all’ombra gigantesca della “ferriera” (è soprannominata in questo modo l’Ilva nel libro di Bernari), dentro la tinta cupa degli altoforni, che è immancabile in un’acciaieria. Per fortuna, osservando l’area dall’alto, il colore della ruggine si stempera nel marrone denso del terreno mosso dai cingolati delle ruspe, nel verde di ciuffi d’erba cresciuta spontanea, nell’azzurro metafisico del mare. «Contraddizione» è un termine che si addice a questo spazio compreso tra la battigia fatta di ghiaia, il fronte delle abitazioni che affacciavano su via Bagnoli e la collina di Posillipo, una delle zone più caratteristiche di Napoli, luogo stereotipo con il pino e il Vesuvio sullo sfondo. Sembra un paradosso, ma la Napoli degli altoforni e la Napoli turistica convivevano spalla a spalla e senza disturbarsi, quasi a testimoniare la condizione di eterna incomprensione (o di tradizionale incomunicabilità) presente fra i caratteri oppositivi di questa città.

Le due Napoli
Su questo discorso insiste Michele Prisco in una pubblicazione del 1961, finanziata dall’Italsider per celebrare i cinquant’anni di attività dello stabilimento. Prisco era uno scrittore partito dall’area circumvesuviana che egli stesso, nel primo libro di racconti, aveva definito «provincia addormentata». Eppure aveva uno sguardo tutt’altro che provinciale tant’è che nel testo commissionato dall’Italsider continuava a domandarsi come mai la “città del ferro”, oltrepassate le fiammate giornalistiche dell’inaugurazione, nel 1911, sia stata relegata in una sorta di limbo: elemento di modernità produttiva certo, ma separato dal contesto urbano, dai comportamenti della plebe, perfino dalle ambizioni di una borghesia che da queste parti ha stentato a manifestare un proprio pensiero, addirittura a esistere come forza motrice della Storia.
Da questa latitanza sarebbe scaturita la ferita, che secondo Raffaele La Capria porta una data precisa: il fallimento della rivoluzione partenopea nel 1799. Bagnoli insomma ha interagito poco con il carattere antropologico del popolo napoletano a cui pure appartiene nel profondo, questa l’opinione di Prisco, addirittura non ha inciso nel determinare una vocazione industriale per l’intera città, finendo per essere, nei quasi novant’anni di attività produttiva, un organismo anomalo e periferico dentro un ventre creato per occuparsi di altro.

Le storie di Bagnoli
È destino però che, quando tutto finisce, restano le storie. Ed è in nome di questo principio che il Circolo, nato nel 1997 al posto dell’ex Cral aziendale, vive in un rapporto di simbiosi con i processi di una memoria collettiva. Un sentimento di pietà si prova nel varcare la soglia, che si trova a due passi da Porta Coroglio, uno dei tre ingressi dell’Ilva, insieme con Porta Bagnoli e Porta Cattolica. È come se la fabbrica avesse indirettamente affidato alla struttura ricreativa l’urgenza di sopravvivere. Fino al 1968 era frequentata soltanto dai dirigenti e dai quadri, poi è stata aperta anche agli operai e adesso non è solo un luogo di svago e di sport - con campi da tennis, palestre per la lotta greco-romana, vasche per l’allenamento del canottaggio - ma una sorta di patchwork della memoria. In cima alla tettoia della direzione si erge la vecchia sirena: un cilindro di metallo scuro con un cappello a forma di cono. Sarà per la presenza del mare ma ha qualcosa che ricorda un faro. Era l’unica dell’intero impianto, il richiamo della fabbrica, potente, autorevole, perfino apocalittico, come quando, a fischi intervallati, era entrata in azione per avvertire che la torre piezometrica stava per implodere. Ce lo racconta Rea attraverso la voce dell’operaio Vincenzo Bonocore. Messa in cima al tetto della direzione, continua il suo rito simbolico: con il suo ultimo suono ha annunciato la fine di un secolo, adesso sta di vedetta a vegliare sul tempo della deindustrializzazione, quel the day after che non si è ancora concluso, quasi ci fosse ancora da aspettare che avvenga altro dopo il boato, il tonfo, la nuvola di polvere e in ultimo, come in un miracolo, l’inno dell’Internazionale abbozzato con il sassofono dal musicista Daniele Sepe.
Sembrerebbe un’invenzione narrativa, invece è davvero avvenuto così, il 25 febbraio del 1998, quando la torre alta 45 metri e con un diametro di 5 si è afflosciata verso il lato di Posillipo. La sirena non è il solo oggetto che sopravvive del centro siderurgico. Un argano che si utilizzava per sollevare il coke dai vagoni ferroviari adesso è un monumento al centro della piattaforma per la balneazione, la palestra per il canottaggio è ospitata da una struttura di mattoni sorretta da travi in acciaio, colorate di verde, che portano ancora la scritta “Ilva Bagnoli”. Non sono che piccoli reperti abbandonati per inerzia a una devastazione industriale. Sostare ad ammirarli è un po’ come rendere omaggio a qualcosa che conserva una propria, monumentale sacralità. Un’ossessiva ricerca di tracce è avvenuta alla fine degli anni Novanta: una spasmodica corsa a salvare oggetti, conservarli, sottrarli all’accaninento della fine, esattamente come fa l’ingegnere protagonista del cortometraggio «L’ultimo rimasto in piedi», girato dal regista Ugo Capolupo, nel 2000, durante le operazioni di smantellamento.
È anch’essa un’immagine religiosa e sacrale, una liturgia dell’epoca posteriore al moderno che presenta i caratteri di una sfida epica e rivendica una sua ragione, un suo ruolo a pochi metri da quel mare un tempo abitato dagli eroi e dagli dèi.

Il pergolato del Circolo Ilva di Bagnoli, sotto il quale si sedeva a prendere appunti per il suo romanzo Ermanno Rea

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